Il Fatto Quotidiano

17 Marzo 2010
La sardegna in crisi

È sabato pomeriggio. Abbiamo appena lasciato l’Asinara, “L’isola dei cassintegrati”, dove infuria una discussione appassionatissima fra Tore Corveddu (leader sindacale della Cgil) e gli operai della Vinyls: è sempre difficile capire come si lotta, dove si sbaglia, quali compromessi fare e quali no. Però a un tratto, dopo che tra lui e Tino Tellini (uno dei leader della protesta) sono volati paroloni, chiedo a Corveddu: “Ma è contento che la trovata dell’isola abbia bucato sui media?”. Il sindacalista della Cgil dà una risposta in cui c’è tutto il senso di disagio per una lotta non convenzionale: “Non c’è dubbio che sia mediaticamente efficace, però….”. Però cosa? “Qui mancano i sindacati confederali, e questo non è un bene”. Ci ripenseremo in barca, a questa frase, che è il simbolo di tanti mal di pancia dei dirigenti della sinistra, quando arrivano le mobilitazioni dal basso. Corveddu è una bravissima persona, non c’è dubbio. Ma le vecchie abitudini – in Sardegna come nel resto d’Italia – prevedono delle liturgie che nell’era mediatica non hanno alcun senso. Una delle lezioni di Porto Torres è anche questa, e ci sembra terribilmente vero quando Antonio Padellaro guarda il prato di croci bianche nel prato davanti alla Torre Moresca occupata: “Quante ne avete messe?”. Tellini sospira: “Più o meno sessanta. Una per ogni fabbrica che chiude”.
Torniamo a terra. Abbiamo ancora addosso l’emozione dell’incontro con gli operai, delle loro celle, del viaggio nell’isola delle tante carceri, e non siamo ancora arrivati a Sassari, che già ci chiama Aldo Addis, il proprietario della libreria più importante della città. La sua Koinè ha organizzato l’incontro: “C’è già ressa, ci sono così tante persone che in libreria non entrano più. Siete d’accordo se ci spostiamo nei giardinetti pubblici?”. Aldo ha ragione. E così il giro di incontri in Sardegna inizia in questa atmosfera magica, dagli operai mediatici, al dibattito di piazza: amplificatore esterno, due microfoni legati con lo scotch, un po’ girotondo, un po’ Hyde Park. Antonio Padellaro, Cinzia Monteverdi e chi vi racconta parlano, dietro una panchina, con le persone tutte intorno, tutti attenti (e incappottati). Molti indumenti viola (“I facinorosi”, li ribattezziamo ironicamente), molta voglia di discutere: entusiasmo (anche troppo, ma ne siamo contenti) per il giornale. Pessimismo cosmico (anche troppo) per la situazione politica. Il primo intervento è quello di un signore che non dice il nome. Ma la sua domanda la sentiremo ripetere spesso: “È bello essere così tanti. Ma non c’è il rischio di restare sempre tra di ‘noi’? Di non riuscire a parlare anche agli elettori di centrodestra?”. Risponde Padellaro: “Noi siamo un giornale che ha una linea chiara. Ma che vuole parlare anche ai lettori di destra, a chiunque non apprezzi la violazione di ogni regola”. A Sassari tutti citano libri, interviste, saggi. Se questi sono i nostri lettori, sono più preparati dei nostri politici.
Arriviamo ad Alghero, nella palestra del liceo. Qui il padrone di casa è VIttorio Nonis. La sua “Libreria Il Labririnto”, è un punto di riferimento, nella città: “Ormai chi vende libri è un sovversivo”, scherziamo, mentre nei nostri discorsi occhieggia Fahrenheit 451 di Bradbury. Altra folla imponente, Alghero: giovani militanti della sinistra radicale, film-maker del Pdci, professori, vecchi liberali, presidi. Introduce Elias Vacca, l’avvocato che è con noi nel nostro itinerario sardo: “Quest’isola è una polveriera di conflitti che sono tutti sul punto di esplodere”, dice con una immagine che ci accompagna per tutto il viaggio. Quanto è vero. Domenica mattina, ecco Nuoro. Ancora una sala strapiena, gente in piedi sul fondo, e grandi risate quando invitiamo a comprare il giornale prima che chiudano le edicole: “È già esaurito dalle 9:30!”. Giovanni Piga, presidente del consorzio, che introduce l’incontro, ci racconta aneddoti commoventi. “All’inizio in città arrivavano poche copie… La gente veniva in biblioteca e si faceva le fotocopie”. Molti interventi belli e riflessivi, animati scambi di battute in sala sul dalemismo (fra chi era molto critico e fra chi era criticissimo) e poi risate quando interviene una vera pasionaria, Agostina Deiana: “Fate come me. L’unica risposta possibile al telebavaglio è spegnere ogni volta che appare Berlusconi. Ovvero quasi sempre. Così almeno lui non si arricchisce con le sue tv”. Tonino Cugusi, direttore della biblioteca: “Cotinuate a seminare cultura”. Una lettrice di Oliena ci racconta della madre, donna di paese, abito nero fino alle caviglie che dice: “Ho la terza elementare, ma questo giornale lo capisco tutto”. Ovviamente ci commuove. Angelo Berria, intellettuale cattolico, cita Calamandrei: “La libertà è come l’aria”. A pranzo Piga ci racconta una battuta del nonno pastore: “Imparate ad ascoltare la parola muta”.
A Cagliari la sala non basta più. Katia Esposito, la ragazza che ha organizzato tutto, è orgogliosa. Ma non ha parlato per dare spazio agli altri. Siamo all’hotel Mediterraneo: 9 relatori, corriamo contro il tempo e lo spazio, se è vero che il salone continua ad allargarsi mentre parliamo. Si inizia in 370, si finisce in 600. Ci raccontano delle scuole che chiudono grazie alla Gelmini, dell'ospedale microcitemico (Laura Pisano) a rischio. E ovviamente dell'Alcoa: “Questa per noi non è una vertenza – grida Massimo Cara fra gli applausi – è una battaglia”. Sì, la Sardegna è una pentola a pressione. E anche una metafora, di un paese sull'orlo del baratro, fra telebavagli, scandali, e processi di deindustrializzazione.
Ce ne andiamo dall'isola sapendo che queste storie continueremo a raccontarle.

di Luca Telese

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