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11 Ottobre 2019
“Vi racconto Mussolini, padre dei leader populisti di oggi”.

L’intervista al Premio Strega Antonio Scurati, autore di M. Il figlio del secolo.

Cominciamo dall’inizio. Il primo folgorante capitolo di M. ti mette subito di fronte a un’assemblea, al Lirico, che è un fallimento di Mussolini. Tuttavia in questo monologo c’è la prima intuizione del libro: il populismo come destino ricorrente dell’Europa, il 1919 del secolo Novecento come il 2019 del secolo Duemila. Come è nato questo capitolo? Era già il punto di partenza per te, quando hai iniziato cinque anni prima, o l’hai scritto e montato dopo, suggestionato dalla stagione che stavamo vivendo?

No, quel capitolo è stato il punto di partenza sin dal principio. Io avevo ben chiaro che avrei voluto cominciare dall’inizio, cioè dalla fondazione dei fasci di combattimento in piazza San Sepolcro a Milano nel marzo del 1919 e che avrei cominciato da questa scena.

Una intuizione in qualche modo profetica, allora. Quando il libro è arrivato in libreria non sembrava storico, ma contemporaneo.

Non è stato un effetto ricercato, è semplicemente accaduto. Ma i propositi che nella mia testa hanno generato M. sono entrati in qualche modo in conflitto, segnando una rottura rispetto a certe abitudini letterarie degli intellettuali negli ultimi decenni.

A cosa ti riferisci?

La mia idea forte, per esempio, era di raccontare una grande storia non dal punto di vista delle vittime, come è stata raccontata necessariamente, e giustamente – e non lo sottolineerò mai abbastanza – negli ultimi sessanta anni.

Volevi superare il punto di vista “vittimario”.

Intendiamoci. Credo che questo racconto sia stato utile e che a questo noi dobbiamo la nostra repubblica, la nostra democrazia, la nostra civiltà. Ma a me – in questo libro – interessava raccontare invece il punto di vista degli attori delle violenze, dei carnefici. E mi interessava raccontare questa storia a partire da una prospettiva che fosse assolutamente “centrale”.

Cosa intendi per “centrale”?

Dico in senso letterale, il centro della scena. Negli ultimi decenni si è raccontato molto adottando una sorta di paradigma marginalista: cioè che  interessani sono i personaggi minori, gli accadimenti secondari, le storie marginali, e poi, attraverso queste visioni si arriva al cuore dei fatti.

E invece al centro della scena c’era la carne viva, e sei partito da lì.

Esatto. M., in primis, è un romanzo corale, chi lo ha letto lo sa. Ci sono diverse sottotrame: riguardano la politica, il personaggio principale e snodi decisivi di questa vicenda, che è una vicenda ultra-romanzesca e i cui epifenomeni principali sono importanti ancora oggi, per gli effetti che proiettano sul presente.

Quindi hai seguito il primattore del totalitarismo italiano, sei partito da lui, tutto inizia da Mussolini nel racconto di M.

Scurati. Quando parli di Mussolini non c’è bisogno di andare a cercare l’aneddoto marginale. Quindi in questo primo volume si comincia da Piazza San sepolcro e, a Dio piacendo, come diceva mia nonna, si finirà in un altro volume, in piazzale Loreto.

E invece, al di là di questo progetto, cosa ti ha portato la scrittura di diverso, rispetto a quello che ti proponevi nella scaletta di partenza?

La cosa che non avevo previsto è che in quell’incipit – che è lungo quattro o cinque pagine – Mussolini avrebbe parlato in prima persona.

Ti eri ripromesso di mantenere attraverso la terza persona una distanza da narratore?

Io, per preoccupazione etica, mi ero imposto la terza persona, un certo tipo di terza persona. Invece poi scrivendo – perché la scrittura deve sempre oltrepassare le proprie premesse, se no è un esercizio di stile – Lui (lui il personaggio, non lui Benito Mussolini), come a volte spesso accade nei romanzi, ha preso la parola e mi ha costretto ad adottare la prima persona.

Interessante questo ribaltamento degli intenti. Leggendo quel capitolo, ovviamente, si ha la sensazione che non potrebbe essere stato scritto altrimenti.

Lo temevo, lo avevo escluso in principio, e invece alla fine l’ho sentito necessario, diciamo, nel momento della creazione letteraria.

Ma qui c’è anche la capacità di sintesi che riveli, la capacità di attualizzare e codificare la biografia di Mussolini, in questa determinata chiave. Tu racconti molto bene il tono perfettamente ambivalente del personaggio pronto ad arrivare alla fine della Marcia su Roma nel vagone letto, ma anche capace di alternare momenti di coraggio vero alla vigliaccheria, combattuto, oggetto di odi e di amori viscerali, nella leggenda che fin dall’inizio della sua carriera lo insegue e cammina al suo fianco.

Questo in effetti è il primo elemento di fascino che questa figura ha per qualsiasi narratore. Me compreso.

Il Mussolini che tu racconti, come politico, in questo è tremendamente moderno. Il lettore è anche autorizzato a leggere questo libro, se gli va, dicendo “Mettiamo che fosse Salvini”?

Innanzitutto, devo dire che a me non piace fare riferimenti ai viventi e all’attualità politica. Ma, come monito, non c’è dubbio che la sua carriera racconti questa ambivalenza. E siccome tu hai ricordato come Mussolini più volte sia stato dato politicamente per morto, teniamolo presente e non ci rilassiamo troppo. Ciò detto, alcune cose che hai detto aiutano a mettere a fuoco questo personaggio archetipico.

Nel senso che puoi amare o odiare Mussolini, puoi maledire o amare il fascismo, però non puoi non capire che quel Mussolini aveva questa modernità di comunicazione, di carisma e di azione che lo rendeva profondamente diverso da tutti i contemporanei.

Io penso che Benito Mussolini sia stato la forma originaria archetipa di ogni leadership moderna. Vogliamo chiamarla leadership populista per capirci meglio? Poi dovremo discutere su che cosa si populista e cosa non lo sia, ma in realtà, come dice il poeta, poi sanno tutti benissimo cosa fare.

Stai citando De Gregori: allora, parleremo tra poco del tema populista e di come declinarlo. Ma tu pensi dunque che quel Mussolini ci sembri così attuale perché è diventato archetipo del passato del presente e del futuro?

Assolutamente si. E Non solo in Italia. Lo è diventato nella misura in cui, pur nella profonda differenza di alcune sue caratteristiche personali e uniche, molti leader populisti della scena attuale, italiani americani, brasiliani – solo per citarne alcuni -, si sono ispirati a lui, in modo dichiarato o no.

C’è – per dire – l’esempio clamoroso e quasi contemporaneo di Getullio Vargas, dittatore brasiliano che realizza una sua “marcia su Rio de Janeiro” prendendo come modello la Marcia su Roma. C’è il rapporto di emulazione di Adolf Hitler. Ma in cosa esattamente Mussolini diventa archetipo secondo te?

In una cosa essenziale: Mussolini è il tipo di leader che è pronto a ogni furbizia ad ogni svolta, ad ogni repentino cambio di direzione, ad ogni tradimento pur di arrivare al suo obiettivo. Mussolini in questo è post-ideologico, ed è l’uomo che tradisce tutti. Che tradisce i socialisti di cui era stato uno dei leader più radicali e più amati, soprattutto dalle frange giovani. Che tradisce – per esempio – un uomo a cui ha rubato molto, Gabriele D’Annunzio.

D’Annunzio, come racconti nei primi capitoli, considerava Mussolini un suo brillante tirapiedi e quello addirittura – come racconti – riesce a rubare al divino poeta il copyright di “A noi!”

I dialoghi con la folla, che sono uno degli assi portanti comunicativi del leader populista Mussolini, il futuro Duce li immagina ascoltando D’Annunzio.

Anche se lo stile del sommo vate era non riproducibile.

D’Annunzio era un oratore di tipo completamente diverso perché era un straordinario ma ipercolto, letterario, crepuscolare.

E si potrebbe citare l’esempio dell”olocausta Fiume”, espressione ricorrente che danza nei tuoi capitoli, che nessuno tra gli uditori contemporanei, secondo me, capiva cosa volesse dire. Però quell’ermetismo dannunziano stregava le folle, e Mussolini capisce che deve fare suo il modulo della connessione profonda con la massa, realizzato dal Vate nei giorni di Fiume.

Quando si candida per la prima volta in Parlamento, D’Annunzio, si impegna in una campagna elettorale nelle Puglie e in questo periodo tiene questi memorabili discorsi ai piccoli borghesi di provincia densissimi di riferimenti colti, di citazioni greche e latine: la folla non capisce assolutamente nulla, ma rimane incantata e ondeggia al suono della sua voce sognante. Mussolini apprende da D’Annunzio l’arte di questi dialoghi con la piazza che sono uno degli atti di nascita del leader populista. Va spiegato che, fino a quel momento, i politici teorizzavano ancora il primato della politica come tecnica per specialisti. Parlavano volutamente, cioè, una lingua per iniziati.

Si può azzardare l’idea che in quelle piazze diciannoviste nasce per la prima volta anche l’antipolitica? È vero che Mussolini padroneggiava già la lingua del socialismo massimalista, faceva il verso a Marx e a Lenin, ma in quella contaminazione c’è un vero salto evolutivo.

Esatto. I vecchi leader liberali concepivano proprio la politica come qualcosa che doveva rimanere separato dall’elettorato, dalle masse. Addirittura, gli elettori di Giolitti – e parlo di un uomo che ha dato il proprio nome a un’intera età, “l’età giolittiana” – potevano addirittura non sapere che aspetto avesse Giolitti. Loro lo teorizzavano, perché si consideravano iniziati, oggi diremmo èlites.

Era anche questa la barriera architettonica che ha impedito ai liberali del Novecento, anche linguisticamente, di radicarsi nel popolo.

In questo rapporto dei professionisti della politica con il potere, il rapporto con l’elettorato doveva rimanere fuori, un aspetto distinto: la politica era qualcosa che viveva in un mondo a parte.

Proviamo a spiegare meglio perché.

Perché in quel tempo il potere politico lo si esercitava nel chiuso delle stanze, ed era monopolio di ceti e classi elevate: erano tutti uomini, maschi intendo, erano persone molto distinte abbastanza avanti negli anni, che non avevano un contatto reale o diretto con la popolazione, che cercavano un contatto con la piazza unicamente nel tempo delle campagne elettorali.

In questo il Fascismo sovverte ogni paradigma: cancella le campagne elettorali e rende la comunicazione popolare uno strumento di mobilitazione permanente nella società.

Per questo motivo Mussolini traduce il cuore della sua battaglia in un linguaggio nuovo che le folle possono capire. Prima – faccio degli esempi – era stato anticlericale e poi si era fatto clericale, prima era pacifista e poi si era fatto belligerante, ma questo importava poco perché la sua continuità non era nei contenuti ma nella lingua.

Se posso proferire una bestemmia: è come se – tu fai finta di non aver sentito – è come se D’annunzio fosse Sgarbi quando parla di Tintoretto, e Mussolini fosse l’equivalente di una diretta Facebook di Salvini, con la gente che gli invia i cuoricini mentre parla.

Faccio finta di non aver sentito, ma il paragone rende l’idea della differenza.

Però tu indugi molto sulla descrizione – bellissima – del Vate, e a un certo punto della lettura qualcuno può immaginare che questo romanzo possa focalizzarsi su D’Annunzio. Ti affascina, lo racconti in modo tridimensionale dal momento dell’impresa fiumana in poi. Ma cosa mancava a quel D’Annunzio per diventare lui stesso il primattore? Gli mancava quel livello più intenso del populismo che riesce ad interconnettersi con la pancia delle persone? Secondo te, perché il D’Annunzio, che prova a diventare duce, e ne ha di certo le potenzialità, non riesce a diventare con Fiume nel 1919 il Mussolini del 1922?

Perché D’Annunzio è un poeta. E Mussolini questo lo capisce benissimo. Mussolini a un certo punto spiega a un suo collaboratore: “D’Annunzio ha scritto Alcyome e sicuramente io non lo scriverò mai”.

E non lo scrive per riconoscere un proprio handicap.

No, ma nemmeno in senso dispregiativo: vedi, Mussolini a differenza dei leader populisti di oggi, e al pari di molti degli uomini politici di allora, aveva una autentica forma di rispetto per l’arte.

Era la fascinazione dell’autodidatta?

Conosceva la letteratura in maniera un po’ imparaticcia e raccogliticcia, abbastanza per apprezzare il lirismo dannunziano. Poi però chiosava: “Questo qui di politica non capisce un cazzo”. Le parole esatte di Mussolini sono queste, e Mussolini aveva ben chiaro il limite del Vate. Ciò che mancava al D’Annunzio nel 1919-20, quando si apre il racconto del romanzo, era tutto quello che gli sarebbe stato indispensabile per poter diventare l’uomo a cui l’Italia guarda.

Di quale Italia parli esattamente?

Di una certa Italia che in quegli anni attende l’uomo della provvidenza: diciamo un’Italia interventista, un’Italia antisocialista, conservatrice, reazionaria, un’Italia di destra. Una parte decisiva del paese che sperava in D’Annunzio come nel possibile leader di questa rivoluzione conservatrice, che i tempi rendevano necessaria e indispensabile per fronteggiare la “minaccia rossa”.

Insomma, D’Annunzio si trova nel luogo giusto della storia, ma non ha la bussola per poter guidare quell’Italia al potere.

Non avrebbe mai potuto guidarla, perché gli mancavano i talenti, le virtù o i vizi, tutti peculiari, della politica. E qui concludo la risposta alla tua domanda precedente. Ecco perché Mussolini – anche quel Mussolini che nel 1919 è uno dei tanti attori sulla scena – diventa l’archetipo, la forma originaria di ogni successivo leder populista. Lui questi vizi e queste virtù iperpolitiche le ha tutte.

Anche se Mussolini in quei giorni non ha ancora una divisa, una casa, una direzione di marcia, tu vuoi dire che ha in sè, già nel 1919, la potenzialità della leadership che a D’Annunzio mancavano.

Esatto: proprio per questo Mussolini vive alla giornata, naviga a vista, tradisce tutti a cominciare da se stesso. Un altro degli elementi di fascino per il narratore è proprio questa ambivalenza assoluta: in fondo diviene, in questa mutazione, l’uomo che lui stesso avrebbe odiato da ragazzo.

Spiegalo meglio.

Mussolini l’uomo della pura tattica e di nessuna strategia. È il pragmatismo spietato eccetera, eccetera, eccetera. Perché lui è davvero è quel tipo di leader che guida la folla, non precedendola, verso obiettivi ideali alti e lontani che la folla, data la sua posizione, non è in grado in particolare di vedere o prevedere. Ma è – piuttosto – il tipo di leader che guida la folla seguendola.

Qui stai parafrasando idee che lui stesso esprime in quegli anni. E questo aspetto è un altro fattore di identità con i populismi del terzo millennio.

Infatti, non è una idea mia, ma sua. Mussolini diceva di se stesso, e con orgoglio: “Io sono l’uomo del dopo”. Cioè intendeva dire: sono quello che arriva un istante dopo che i fatti irrevocabili sono accaduti. È l’uomo che arriva un istante dopo che l’umore nero della folla si è manifestato, e ha sprigionato nell’aria – perché la maggior parte degli umori non odorano ma puzzano – la propria puzza mefitica. Mussolini arriva sempre un istante dopo che il punto di svolta irrevocabile è superato.

Facciamo degli esempi che rendano l’idea.

Pensa all’impresa fiumana, al monologo interiore del Mussolini di quei giorni. Non è affranto, o preoccupato: D’Annunzio è andato a Fiume? Ha fatto la grande impresa? Ha scompaginato le carte? Benissimo. Ottimo. Si brucerà. E poi arrivo io, su quel cadavere ancora caldo. E dalla sua fine traggo la mia forza. Questo è il cuore pulsante del populismo.

Come se fosse quasi un istinto da parassita ad alimentare la su forza. Qui c’è la connessione col presente. Ancora un lampo su Mussolini di questi giorni che tu descrivi molto bene: le sconfitte brucianti, il senso – a volte – di ritrovarsi sull’orlo del baratro. In questo 1922 che cos’è che lo tiene a galla quando rasenta la disperazione? E che cos’è che lui capisce che invece gli permette di sopravvivere. Ha una visione del dopo? In che cosa Mussolini è diverso da tutti gli altri?

Lui è diverso da chiunque altro per vari motivi. Intanto perché era stato dall’altra parte, a sinistra intendo, e aveva una conoscenza perfetta del mondo socialista, dei suoi pregi, dei suoi difetti fatali. E, per esempio, lui dice, con il suo fare spaccone, ai suoi pochi accoliti del tempo: “I socialisti la rivoluzione non la faranno mai. Io lo so perché li conosco, perché ho vissuto sotto la loro casa, ho dormito nel loro letto”.

Questo sul piano politico. E poi, quale altro ingrediente decisivo c’è in questa fase?

Una donna. Lo tiene a galla una donna, perché – questo va detto – io mi soffermo a lungo sul rapporto con Margherita Sarfatti, perché lei è decisiva. Questa donna che era una raffinatissima intellettuale, quando invece Mussolini, come sappiamo, culturalmente era un analfabeta autodidatta.

Forse un autodidatta socialista del Millenovecento valeva più di molti laureati 110 e lode del Duemila. E Mussolini si era alimentato profondamente dello zeitgeist, dello spirito del suo tempo, delle tendenze culturali che lo avevano attraversato, a partire dal futurismo.

Era figlio di un fabbro che però era curioso di tutto. E la Sarfatti è cruciale nel sostenerlo, anche psichicamente, nei momenti della sconfitta. Ma se volessimo ridurre ad una essenza il suo fiuto politico, il nodo decisivo ai fini della sopravvivenza è questo.

Intendi dire il fiuto?

Esatto: vedi, fiuto è un termine quanto mai appropriato per descriverlo perché indica una capacità animale, non una superiore facoltà razionale. Ma una delle costanti di Mussolini, una delle capacità animali del suo cervello rettile – per capirci – è la sua straordinaria abilità a fare sempre la mossa che lo riporta in gioco, partendo da un ragionamento che per lui è una costante. Anche qui c’è un tratto ricorrente con i populisti più moderni.

E qual è il ragionamento costante?

Questo fiuto animale porta Mussolini, in ogni bivio decisivo della di ascesa, a scommettere sempre sul peggio. Lui scommette, e fomenta gli animi, incendiandoli quando è necessario, poggiando su quelle che due psichiatri francesi qualche anno fa, con una meravigliosa espressione, hanno definito “le passioni tristi”. Parlo della paura, della rabbia, dell’angoscia.

Era stata la palestra del reducismo a sintonizzarlo su questa lunghezza d’onda. E lui su questo terreno vince perché non ha competitori, né a destra né a sinistra. Il millenarisno socialista era tutto intriso di speranza, idealismo, speranze ultraterrene, di utopia. La lingua delle èlites – oggi come allora – proprio per quello che abbiamo detto, aveva il tabù delle viscere, dei sentimenti neri, delle passioni indicibili.

Invece Mussolini scommette sui sentimenti degli uomini e delle masse. Ad esempio scommette che i vizi di D’Annunzio lo precipiteranno nell’abisso del suo narcisismo a Fiume, e così accade. Lui ad esempio scommette sulla debolezza della Monarchia, due volte. Scommette sul fatto che il Re Vittorio Emanuele si renderà indegno durante la Marcia su Roma. Molto prima del luglio del 1943 e del settembre del 1943, il Re sceglierà di non firmare lo stato d’assedio di Roma e di non passare il potere alle autorità militari che avrebbero fermato alla prima raffica di fucileria quella scalcagnata banda di squadristi.

Tutte scommesse vinte, purtroppo.

Mussolini scommette sempre sul peggio, e vince, scommette sempre sul fatto che tutti daranno il peggio di loro stessi, questo lo porta a prevalere sul concerto delle debolezze altrui.

Parliamo ancora della Sarfatti: scavi in questo personaggio, setacci il suo carteggio, lasci aperta una soluzione. Lei è una splendida dandy che si avvicina a Mussolini per passione fisica. Le serviva come un giocattolo, ma non aveva ancora capito la grandezza del disegno oppure, come hai adombrato ora – perché nel libro racconti anche delle altre facce -, è una talent scout, una rabdomante che per necessità individua l’uomo forte e lo eleva negli altipiani della storia?

Le due cose insieme. Sicuramente Margherita Sarfatti è combattuta: ed è anche qui l’ambivalenza, la complessità dei personaggi. Lo presenta lei a D’Annunzio, gli insegna a stare in società, lo sostiene quando lui vacilla, sicuramente lo ama, io credo. Dai carteggi appare evidente. C’è addirittura la remota possibilità che in qualche momento di sbandamento anche Mussolini abbia provato dei sentimenti per lei, cosa che gli riusciva difficile nei confronti delle donne.

Tu dici donna di una bellezza crepuscolare, dai seni di donna che aveva allattato.

Sì, perché lei era più grande di lui, adesso non entriamo in dettagli scabrosi. In seguito Mussolini arrivò a dire delle cose terribili su di lei. Anche sulla fisicità della Sarfatti. Molti anni dopo, a Claretta Petacci non le ripeté. Bisogna sapere che l’ultimo amore, l’ultima passione di Mussolini, come tutti voi saprete, era questa donna molto più giovane di lui, Claretta Petacci. E c’è un documento rivelatore, il “Diario di Claretta”, in cui lei quotidianamente, siccome non aveva molto altro da fare, annota le proprie giornate con Mussolini. A saperlo un po’ filtrare, è un documento straordinario. Siccome lei era molto gelosa anche del suo passato, del passato di Mussolini intendo, Mussolini fa questa cosa spregevole, fra le tante che ha fatto, di infangare il ricordo delle sue amanti precedenti, delle sue donne precedenti e soprattutto della Sarfatti.

Anche questo molto italiano, non certo anomalo rispetto al costume del maschio medio italiano.

Molto italiano nel peggio, quando gli italiani danno il peggio di sé, insomma. E siccome la Petacci era giovane – ma non stupida – sapeva che l’unica o una delle pochissime amanti di Mussolini che avesse veramente contato era la Sarfatti. Lui dice delle cose infami sul suo conto, ma lei lo avverte. E però – dicevo – la Sarfatti sicuramente lo amò, ne fu sedotta, ebbe passione per lui, lo chiamava “il mio tenerissimo selvaggio”.

Quale Mussolini conosce Margherita?

Immaginati l’incontro. Lui era un rozzo, di origini umili, veniva dalla provincia di Forlì, lei era una gran signora, una intellettuale, ricca. Che però lo voleva anche usare. Cioè non facciamo un santino della Sarfatti. Nel senso che Mussolini lei lo sostenne nei momenti difficili perché era la sua scommessa personale.

In quel secolo le donne giocano sugli uomini come sui cavalli per poter esercitare il loro carisma. Perché non sempre possono giocare in prima persona, come la Kulishoff. Solo a sinistra potevano parlare di politica e farla.

Le donne – a quei tempi – scommettono sugli uomini per necessità. Io suggerisco questo parallelo, che a volte suona un po’ sacrilego a chi si è formato come me nel culto di grandi uomini e donne della sinistra – diciamo – tra il rapporto Mussolini-Sarfatti e il rapporto Kuliscioff-Turati. Perché se voi leggete il carteggio di Filippo Turati con Anna Kuliscioff, madre nobile del socialismo progressista, diciamo gradualista di quegli anni, è uno dei più straordinari documenti del Novecento. Ma ci mostra anche – loro si scrivevano quotidianamente – un rapporto assolutamente paritario sul piano dell’analisi politica, della capacità di comprensione della politica e anzi molte volte è la Kuliscioff a suggerire a Turati cosa fare.

Però perché è a sinistra. Perché la sinistra del Novecento era un po’ più avanti sui costumi di pariteticità rispetto alla destra.

Indubbiamente. Anna Kuliscioff, fra l’altro, era stata già, nella sua vita, la compagna di un grande leader della sinistra socialista, cioè di Andrea Costa.

Il primo deputato socialista della storia italiana, l’uomo che era andato a fermare le navi in partenza per l’Africa.

Che era stato eletto per quelle battaglie di fine secolo. E lei ne era stata da giovane, molto bella, la compagna. Ma la Kuliscioff era anche una scienziata, perché era laureata in Medicina e aveva contribuito, dopo la laurea, alle ricerche a Torino che avrebbero sconfitto la febbre puerperale, salvando la vita a milioni di donne. Cioè, questa persona geniale – alla fine tanto quanto Margherita Sarfatti – era costretta dall’epoca in cui viveva a fare politica scommettendo su un uomo. Lo stesso Costa o Filippo Turati. E tutto perché per un motivo rozzo, semplicissimo, brutale e basilare fino al 1948, quando nasce la nostra repubblica, le donne in Italia non avevano diritti politici né attivi né passivi. E quindi, se volevano fare politica, lo dovevano fare attraverso un uomo. Fossero esse Margherita Sarfatti o Anna Kuliscioff.

Non c’è nei personaggi corali che tratteggi un medaglione potente come quello di D’Annunzio su uno dei leader socialisti. Cioè i socialisti, se uno leggesse solo M. – questa è solo l’impressione, forse perché la soggettiva di Mussolini e della storia del fascismo è potentissima -, non hanno la grandezza del primattore in queste pagine. Turati appare nel carteggio, i socialisti riformisti in qualche lampo di cronaca come contorno, Gramsci e Togliatti giovanissimi interventisti, prima sedotti da Mussolini e poi disgustati da lui, non ci sono proprio. L’unico socialista che è sulla scena, ma perché è il cuore di questo libro, ma ci arriviamo dopo, è Giacomo Matteotti. Ma è il Matteotti martire, non il politico. Non ci sono i socialisti come protagonisti politici, perché?.

Questa è una scelta di poetica, nel senso che una delle caratteristiche strutturali di questo romanzo è la sfida – come accennavo prima – a raccontare il fascismo attraverso i fascisti. Dopo che per settant’anni si è necessariamente, raccontato il fascismo e il nazismo attraverso le loro vittime e i loro oppositori, io ritengo – per ragioni che forse sarebbe troppo lungo e noioso spiegare qui – che fosse giunto il momento di raccontarlo attraverso i carnefici. Non solo io eh, ma preceduto da alcuni grandi scrittori europei. Ricordo “Le benevole” di Jonathan Littell, che è uno dei capolavori dell’arte e del romanzo del nostro tempo e chee racconta il nazismo attraverso un nazista, cioè un personaggio di finzione ma ricalcato su un ufficiale delle Ss.

È stato un antecedente, per te, “Le Benevole”?

Per me è un modello, anche se Littel fa una scelta diversa. Cioè, è un romanzo il suo, uscito qualche anno fa, con una fortissima base documentale. Voi questa impostazione la sentite in ogni pagina e questa è una caratteristica in comune con il mio libro, si parva licet. Però Littel inventa un personaggio di finzione. Io invece ho tenuto la scelta documentale sino alle estreme conseguenze. Quindi, avendo scelto di raccontare rovesciando il paradigma vittimario, credo che mancasse quest’ultimo tassello al quadro completo, cioè raccontarlo in maniera non ideologica, sicuramente non apologetica, attraverso i carnefici. I protagonisti sono i fascisti stessi, c’è un’unica linea narrativa.

Però si avverte che i socialisti che descrivi in questa esperienza sono condannati dalla specie evoluta a soccombere.

La storia andò così: i fascisti furono protagonisti non solo perché io li elevo allo status di protagonisti dedicando a loro la mia narrazione, ma perché prevalsero su tutti. Con le ragioni del più forte? Con la forza della brutalità? Certo. Con gli strumenti della violenza, anche, con il metodo dell’inganno. Indubbiamente sì. Eppure, ciò che pensiamo di loro, dei vincitori e dei dominatori, se vogliano raggiungere la maturità della nostra resa dei conti con il passato fascista di questo paese e con – speriamo di no – con il suo possibile ritornare in forme diverse nel presente e nel futuro, dobbiamo arrivare a riconoscere che le loro ragioni, erano delle ragioni. Che il fascismo convertì sistematicamente in torti. Sì. E su questo io credo di non aver fatto nessuno sconto. Ma il fascismo aveva dalla sua delle ragioni che corrispondevano a delle forze storiche potenti. Prepotenti? Sì. Violente? Indubbiamente. Brutali? Indubbiamente. Ma anche necessarie nel tempo in cui questa battaglia prende corpo. È un aspetto che noi non dobbiamo trascurare soprattutto nell’analisi.

Il fascismo autobiografico della Nazione di cui parlava Pietro Gobetti. Andiamo al romanzo nel romanzo che, secondo me, dentro M. è il delitto Matteotti.

È così.

L’eccidio è totalmente riscritto su base documentale, con una cronaca in diretta. Un po’ come Truman Capote, un “A sangue freddo”, che diventa attuale. Questo è sconvolgente. La cronaca dei giorni può far venire in mente – a me ha fatto venire in mente per interesse personale – i novanta giorni di Moro. Può far venire in mente “Anatomia di un istante” di Javier Cercas. È un punto di svolta. È un clamoroso infortunio del fascismo, è il momento di disperazione massima di Mussolini, è la catastrofe, che lui trasforma, nel finale di questo libro, nella leva della scalata perfetta al potere, proprio quando sembra che l’omicidio faccia tremare le basi ancora precarie del regime. Che cos’è che decide in questo bivio? Lo avevamo letto su tutti i libri di storia, l’omicidio Matteotti, ma rileggere la sequenza di questo drammatico racconto in M. è folgorante.

Le due polarità opposte che hanno costituito la principale risorsa, del “genio” politico di Mussolini stanno racchiuse nella cronaca di quei giorni. C’è la brutalità, la violenza, e c’è l’intelligenza politica, il fiuto. C’è un momento – che io racconto ma che sembra una scena inventata da uno sceneggiatore hollywoodiano – quando alcuni dei capi, dei ras delle province vanno a Roma, entrano a Palazzo Chigi, perché lui allora stava lì, non stava ancora a Palazzo Venezia, e sono proprio questi uomini d’arma, alcuni anche violentissimi, che mettono Mussolini spalle al muro e addirittura lo minacciano.

E tu dici: Mussolini si ritrova stretto fra le squadracce e l’opposizione come se a un certo punto la tenaglia stesse per stritolarlo.

Quella forbice lo spinge verso un grandissimo colpo di teatro e atto di coraggio politico nel più celebre dei suoi discorsi parlamentari.

Però se dovessi dare un indizio, una chiave di lettura, che cos’è secondo te che scatta in lui mentre rischia la disfatta totale in cui le opposizioni si uniscono? L’Aventino all’inizio sembra vincente, il Corriere della Sera che si ribella e lo critica apertamente, la notizia del ritrovamento del cadavere e della violenza subita sconvolge l’opinione pubblica. Cosa? Rileggendo la descrizione del ritrovamento, la fossa, il corpo martoriato, le braccia spezzate dietro la schiena viene in mente Pasolini: che cos’è che salva Mussolini in quel momento e gli fa venire in mente il colpo di genio in Parlamento, e gli dà anche la forza e la sostanza politica per dire: “Assumo su di me la totale responsabilità politica e morale”. La forza di dire: “Se il fascismo è stata una associazione a delinquere io ne sono il capo”?

Io scrivo – non tutti son tenuti a saperlo – che a un certo punto dopo il delitto Matteotti, Mussolini sembra davvero perduto. Cioè in Italia all’improvviso, dopo la scoperta dell’eccidio, non sembra esserci più un solo fascista. Tenete conto che Mussolini governava già da due anni il Paese su incarico di Vittorio Emanuele III Re d’Italia. Era arrivato con la pressione delle squadre, ma si era già fatto istituzione. Poi questo cadavere rimette tutto in gioco.

Ha già ottenuto la formazione della Milizia, cioè la istituzionalizzazione della base squadristica del fascismo.

È in quel momento un Vincitore, salutato da molti organi di stampa in tutto il mondo come lo statista del secolo.

Ha chiuso la vicenda di Fiume, media in Europa.

Quando lo scandalo deflagra Mussolini ha appena chiuso la vicenda di Fiume, passando per l’uomo che ha salvato l’Italia. E poi, quando sembra che abbia trionfato su tutto, arriva lo stillicidio delle rivelazioni, l’orrore di questo brutale omicidio. Che è grave perché non è un incidente, ma è l’espressione più vera della brutalità e della violenza che fin dall’origine marchia il fascismo.

È voluto ma non è pianificato. Leggendo M. questo appare evidente.

È voluto, è atmosferico, è inevitabile. Nessuno storico è riuscito mai a stabilire – e nessuno storico ormai lo stabilirà – se Mussolini abbia dato intenzionalmente l’ordine, se cioè abbia detto letteralmente “uccidete Matteotti”. Ma non vi è dubbio, che quel desiderio espresso, quel “toglietemi dai piedi Matteotti”, fosse qualcosa di molto simile alla committenza di un delitto. In Parlamento Matteotti era rimasto ormai l’unico inflessibile, ostinato, quasi ossessivo, coraggiosissimo, oppositore. Tutti avvertivano dunque che quel delitto fosse in qualche modo promanato dalla sua volontà, anche se non espressa in modo documentabile. La mia ipotesi – che è quella di un romanziere – è che Mussolini, dopo che Matteotti aveva tenuto un ultimo discorso, in cui aveva chiesto di invalidare le elezioni nelle quali il Partito nazionale fascista aveva trionfato con il 63% dei consensi, abbia perso la testa.

Aveva raccolto “solo” quattro milioni di voti, l’Italia non era ancora sua.

Però erano tanti, pur con i brogli, pur con le violenze. Pensate, avevano fatto la legge Acerbo, che dava la maggioranza assoluta a chi avesse ottenuto il 25 per cento dei consensi. E loro ne ottennero il 63 per cento. Matteotti tiene quest’ultimo discorso, elencando minuziosamente tutti i seggi in cui erano avvenute violenze, pressioni, brogli, e i morti, perché c’erano stati molti morti durante la giornata elettorale. Poi lui esce, Mussolini sbotta, alla presenza di alcuni suoi fedelissimi e dice: “Questo ancora gira, perché non me lo togliete dai piedi”. Però, bisogna anche tenere conto che Mussolini di queste uscite ne faceva spesso. Vuoi sapere che cosa accade secondo me? Successe che, fra questi due o tre ascoltatori, c’era il più stolido, il più meschino, il più ottuso, il più gretto dei suoi collaboratori abituali. Parlo cioè Giovanni Marinelli, il tesoriere del partito, che tutti, anche i fascisti della prima ora, disprezzavano. E accadde che allora Martinelli fu preso da questo fuoco sacro -“È il mio momento” -, da questo zelo di realizzare, eseguire, la volontà del Capo. E così Martinelli manda questi cinque delinquenti a sequestrare Matteotti.

Non solo. Li paga, senza distruggere le prove di questi rapporti compromettenti.

Li paga, ma li paga troppo poco perché lui è tesoriere e tiene sempre stretti i cordoni della borsa. Non li paga a sufficienza perché, se avesse preso dei veri killer seri, questi non avrebbero fatto il pasticcio che hanno fatto dopo. E anche l’obbrobrio e lo scempio del cadavere è figlio di questa brutalità micragnosa. Ma torniamo alla tua vera domanda di prima: che cosa accadde nel momento in cui il fascismo sembrava finito. Calcola che Mussolini stesso lo scrive, il suo cameriere racconta che prima erano tutti nell’anticamera ad aspettare per ore e che improvvisamente si fa il vuoto. Adesso non c’è più nessuno, Mussolini è solo, scrive nelle sue memorie Navarra.

Libro straordinario che Navarra scrive, aiutato anche da un signore che si chiamava Montanelli, un libro pubblicato dalla Longanesi nel dopoguerra.

Il cameriere del Duce varca la porta – non sappiamo se sia vero o no, ma Navarra è un testimone affidabile per quasi tutte le cose – e vede Mussolini, da solo in questa stanza, che non era ancora la sala del Mappamondo, che c’ha una sedia con le spalliere con due grossi pomoli, e che come un metronomo impazzito sbatte la testa da destra a sinistra contro i pomoli. Era così, era in queste condizioni. E succedono due cose.

La prima è la scena “hollywoodiana” che hai già ricordato.

Vanno da lui i capi degli squadristi con le pistole, ed è come se quelle armi le mettessero sul tavolo. Coloro che fino a ieri erano i suoi cani da guerra, che lui usava allungando il guinzaglio o richiamandoli, adesso lo minacciano. E glielo dicono senza giri di parole. C’è ad esempio questo Aldo Carabella, uno dei pluridecorati di guerra, figura d’altri tempi che gli dice: “Senti, qui o vai avanti tu e facciamo piazza pulita, o ci pensiamo noi e facciamo piazza pulita. Anche di te”. Da un lato della tenaglia, dunque, c’è l’aspetto più violento ma anche più diritto dello squadrismo fascista. Non quelli che fanno calcoli, non Grandi o Ciano, ma Carabella, il soldato, il guerriero che non obbedisce più ai tuoi ordini.

Si, però anche lui avverte che la mela è matura, che è il tempo per provare un altro salto.

Vero. Ma dall’altro lato della tenaglia c’è il polo opposto, cioè la meschinità delle opposizioni che non si uniscono. L’appello – geniale dal punto di vista dei risultati e dell’efficacia – di Mussolini è questo: guardate che contro di me c’è l’attaccamento alla poltrona da parte dei parlamentari.

Ecco di nuovo l’antipolitica usata per intercettare il sentimento delle masse.

Cosa fa infatti in quei giorni Mussolini? Ha questo guizzo da acrobata e riesce a riottenere la fiducia in Parlamento, depositando al banco della presidenza, lui stesso, un disegno di riforma elettorale che fino a poche settimane prima aveva avversato. Un disegno maggioritario. Adesso, al di la dei tecnicismi, questa mossa gli consente di tenere in pugno i parlamentari con la minaccia di nuove elezioni. Cioè, se il suo disegno di legge cambia le regole, molti sanno che non torneranno eletti.

Anche questo ricatto mi ricorda qualcosa, ma sorvoliamo.

Mussolini in pratica dice ai parlamentari: “Voi volete farmi cadere? Siete pronti a sfiduciarmi? Rischiate di non essere rieletti. Perché le liste elettorali le faccio comunque io e voi rischiate la poltrona”. Allora da un lato abbiamo Aldo Carabella, dall’altro gli antifascisti, ma in mezzo c’è lui che prende in mano la bacchetta.

Devono averlo letto anche dei leader politici attuali, questa estate, M..

Ecco, io adesso qui non mi metto a fare dei nomi, ma ci sono alcuni leader politici attuali, che mi hanno comunicato tramite le loro segretarie, mi mandano sms, che mi chiedono appuntamenti.

Interessante. E li avete fissati?

No, io poi non ci vado: cosa ci vado a fare? Però ci sono dei leader, anche nominalmente di sinistra, che usano M. come vademecum, ogni volta che devono prendere una decisione riguardo al da farsi, leggono. Questo come autore mi inquieta.

Poi dicono che i libri non sono pericolosi…

Tra gli estimatori politici di M. per esempio c’è l’ex ministro, come si chiama quello che ha scritto a “Orizzonti Selvaggi”?

Carlo Calenda, che è un tuo estimatore letterario…

Lui. Ma torniamo a Mussolini. Lui da un lato ha gli squadristi, i guerrieri, la forza militare. Che lo spingono e gli dicono: “O con te o senza di te, noi andiamo fino in fondo”. E dall’altro le opposizioni. Però con la sua capacità Mussolini riesce a convertire questa spinta, violenta, brutale, rozza, dice di Aldo Carabella che era un guerriero ma che non avrebbe saputo governare nemmeno il suo condominio – nella più sottile e quasi perversa sapienza politica, nella capacità di cambiare opinione riguardo a un disegno di legge elettorale dalla mattina alle sera. Arriva a depositarlo al banco della presidenza a Montecitorio. E con quella legge far capire ai parlamentari che sono pronti a sfiduciarlo che se vogliono possono sfiduciarlo ma non torneranno in Parlamento. E allora lì, lui alza lo statuto della Camera come una Bibbia e dice: “Qui c’è un articolo che ognuno di voi può portarmi in giudizio davanti al Re. C’è qualcuno che vuole farlo?”.

Molto teatrale, una pagina incredibile.

C’erano tanti uomini di coraggio, quel giorno in quell’Aula, gente che aveva rischiato la vita.

Ma nessuno parla. Perché tu dici – e qui c’è una paura che diventa pesce pilota dello spirito politico – che a un certo punto questi uomini che non avevano avuto paura di nessuna minaccia dicono tra lì loro: “Bisogna sentirlo fino in fondo questo discorso”. Sembra che siano solo Prius enti, ma lì perdono il momento. È una pagina straordinaria di questo libro. Dove vuole arrivare, si chiedono, che cosa ha nella manica, aspettavano di vedere, invece era quello l’asso, e loro non lo capiscono.

Mi è stato anche rimproverato – e da qualcuno anche giustamente – che che nel mio racconto del celebre discorso del 3 gennaio c’è un eccesso di drammatizzazione, la complessità delle ragioni che hanno fatto sì che Mussolini prevalesse non è perfettamente restituita.

E non è vero, come sa chiunque abbia letto quelle pagine.

Beh, avranno anche ragione loro. Invece, però, è anche vero quello che diceva Levi Strauss e cioè che “la cultura è sempre il frutto di una riduzione della complessità”. Alla fine se tu vuoi capire, se tu vuoi scegliere, se tu vuoi sforzarti di capire un uomo un’epoca, un po’ tutta questa complessità delle ragioni le devi semplificare

La semplicità, che è anche difficile a farsi, diceva Bertolt Brecht.

Esatto. Quel discorsi non esauriscono tutte le ragioni per cui Mussolini prevale, ma ne spiega la Baggio parte.

Tu spesso fai parlare i reperti, i documenti, i testi e le memorie. Secondo me, tra i documenti che fai parlare, un ritratto straordinario di Mussolini – se non fosse morto bisognava commissionargli un libro – è la nota di pubblica sicurezza su di lui: l’ispettore di pubblica sicurezza che fa un ritratto di tutte le facce di Mussolini lo riassume in modo profetico.

Bisogna aggiungere che lo scrive nel 1919 e che si chiamava Gasti. Già nel 1919 capisce ciò che Mussolini sarebbe stato negli anni successivi, sì.

E lo tratteggia così: volubile, romantico, connesso con le masse, capace. Gasti scrive anche che Mussolini non è un buon oratore, però dice che è in grado di capire, di scegliere, e che ha coraggio politico. Che è amato e odiato. È un ritratto a tutto tondo, fatto anche di contrari.

Benito Mussolini, fin dal 1919, quando fonda il movimento dei fasci di combattimento, dispiega con futura potenza e dico futura perché al momento non sembra così efficace, ma poi penetrerà, la sua propaganda contro il Palazzo, la sua invettiva martellante contro le “vecchie mummie”.

Ed eccoci alla madre di tutte le battaglie, all’antipolitica.

Conia lui il termine “antipolitica”. Lui stesso dice: “Noi non siamo la politica, noi siamo l’antipolitica. Noi non siamo un partito, noi siamo l’antipartito”. Usa anche con frequenza, questa espressione riferita alla vecchia classe dirigente di mummie, dice letteralmente: “Questi vanno messi in liquidazione”. Adesso, mutatis mutandis, è lo stesso tipo di propaganda che altri leader populisti nei decenni e nei secoli successivi useranno per raggiungere il potere. Su questo non c’è dubbio. L’unica differenza è che su queste basi lui prende il potere e riesce a durare vent’anni.

A novembre 2020 uscirà il secondo volume di M.: non svelare nulla che non puoi svelare, ma quale sarà il cuore di quel volume? Così come hai articolato questo quadriennio intorno al delitto Matteotti, qual è il cuore narrativo, cronachistico, di quello che racconterai?

Quel che racconterò nella seconda parte di M., sempre a Dio piacendo come diceva mia nonna, uscirà tra un anno. Il secondo volume è dedicato al racconto degli anni del regime. Cioè ai giorni in cui questi giovanotti, o giovinastri – perché molti di questi erano giovanissimi per gli standard dell’epoca – diventano statisti. Pensate che quando Balbo e Albinati vengono eletti la prima volta in Parlamento, non possono assumere l’incarico perché sono troppo giovani per le leggi dell’epoca, non hanno ancora compiuto trent’anni. Insomma quando questi sedicenti rivoluzionari, che in qualche modo rivoluzionari lo erano, entrano nel Palazzo e occupano finalmente le stanze del potere senza avere alcuna competenza. Tenete presente che quando Benito Mussolini all’età di 39 anni sale le scale del Quirinale alla fine dell’ottobre del 1922 e riceve da sua Altezza Reale Vittorio Emanuele III l’incarico di formare il primo governo – io non ho molta simpatia per il Re perché è la storia che testimonia i suoi limiti – Mussolini è il più giovane capo di stato della storia, non solo italiana, ma del mondo occidentale. Non ha, a quella data, nessuna esperienza politica ne amministrativa nemmeno di un piccolo comune.

Anche in questo caso ogni riferimento a fatti e persone del presente è puramente casuale

Speriamo che nel frattempo la cronaca politica evolva e torni a favorirmi, ma in questo momento sembra un po’ divergere, ma c’è speranza che nell’arco di un anno, invece, le possibili similitudine diventino più pressanti

Sono gli anni del consenso e della propaganda.

I pochi anni del consenso, in realtà, anche se questo raggiunge il suo apice nel 1935, ma purtroppo comincia molto prima. Devi sapere che ho iniziato a lavorare ad M2 – io li chiamo come le metropolitane di Milano – quando ancora non era stato pubblicato M1.

… Allora puoi scrivere anche la M. gialla e la viola.

Eh sì, alcuni mi dicono che dovrebbero essere quattro o cinque volumi per rispetto alla rete di trasporti. Nella mia testa invece il terzo dovrebbe raccontare invece l’abisso, diciamo così, l’immane tragedia in cui come deduzione delle premesse, non come svolta, il fascismo sprofonderà il Paese.

Che tipo di lettori avevi in mente quando hai scritto M.?

Fino al mio libro precedente, che si intitola “Il tempo migliore della nostra vita” e che è un libro sulla Resistenza – io arrivo a scrivere dei fascisti passando attraverso un amore e un culto intellettuale per gli antifascisti -, io non avevo mai avuto in mente un pubblico di giovani. Pensavo che il lettore, il mio modello, fosse per lo meno un mio coetaneo. A un certo punto invece ho iniziato a pensare ai miei studenti universitari.

Perché sei anche professore.

Io ho sempre insegnato nella mia vita, e anzi ricorro sempre a questa battuta: “Prima insegnavo al liceo, adesso insegno all’università, nel frattempo l’università è diventata un liceo: è come se non mi fossi mai mosso. Così ho cominciato ad avere in mente i miei studenti. Ventenni, ventunenni, ventiduenni, e questo secondo me mi ha anche migliorato come scrittore. Perché è faticoso, perché non puoi dar nulla per scontato, soprattutto se sei consapevole, se sei un insegnante consapevole oggi, che i tuoi studenti non sanno assolutamente niente, non hanno riferimenti culturali.

Sei così pessimista?

Non su di loro, sia chiaro, ma su di noi, sul sistema formativo. So per esperienza che noi siamo incapaci di dar loro una formazione intellettuale. E quindi se nomini Cesare Pavese, devi assumerti il compito difficilissimo, di spiegare in cinque righe, a rischio di essere un po’ didascalico, chi era Cesare Pavese. Ma per poterlo fare devi prima tornare a chiedertelo tu. Per me chi è Cesare Pavese? E quindi sì, avevo in mente i giovani.

E poi, cos’altro ti muove quando ti impegni in un lavoro di queste proporzioni?

C’è quello che noi non confesseremo mai, ma che comunque anima ancora il lavoro di molti scrittori, che non è non solo una grottesca idea della gloria, ma sicuramente un sentimento della posterità che l’accompagna. Uno scrittore quando scrive, lì nel suo angolino nella sua tana, anche se scrive un libro di ricette, è sempre in una dimensione assoluta in cui pensa, in cui deve pensare di scrivere per i posteri. Nessuno scrive per il proprio portinaio: lo disse un grande scrittore aristocratico del passato che disprezzava i portinai.

E non si scrive neanche per l’editore che ti paga.

Ma neanche per l’editore che ti paga. E allora citiamolo invece il grande poeta: il libro sono lettere d’amore spedite ad amici, sconosciuti, stranieri. È sempre così. Tu devi avere in mente un orizzonte che è ampio quanto l’umanità stessa ma che tu non incontrerai mai con cui non verrai mai in contatto. Con cui non prenderai mai un caffè. Ché magari vivrà o in un altro luogo del pianeta o dopo di te o che è vissuto molto prima di te e che è già cenere da secoli. Questo afflato verso il tempo più largo della cronaca, verso l’interesse disinteressato, è il sentimento da cui si generano l’arte, la letteratura, le cose migliori, anche l’amore, i figli. Tutto questo nasce in quei rari momenti in cui noi siamo capaci di entrare in consonanza con un tempo più grande.