Il Fatto Quotidiano

14 Gennaio 2010
L’ultimo Virzì

Dice Stefania Sandrelli: “Si ride, si piange e si ha la l’impressione di volare. come nella migliore tradizione della commedia all’italiana”. E’ vero. Lei la conosceva bene e guardando La prima cosa bella di Paolo Virzì, darle torto è impossibile. Arrivi a fine film in uno strano terremoto emotivo: piangi e ridi, un po’ assisti stupito, un po’ ti identifichi, come si fa con i personaggi che si amano, come se fosse la tua storia (anche se non è vero). Paolo Virzì ci ha regalato un film prodigioso che scorre felice, per disegnare il miglior affresco sulla famiglia italiana da molti anni a questa parte, reinventando il filone più felice del nostro cinema. Al centro della trama c’è la storia turbinosa di Anna Nigiotti in Michelucci: due figli nella sua famiglia (e uno fuori), un marito (e un plotone di amanti), una voglia di vivere che sfiora l’autolesionismo ma che conosce un entusiasmo incontenibile: la vita, la morte, amori colti distrattamente sull’albero delle circostanze e sull’onda delle emozioni. “Sei una ninfomane!”, grida un giorno il figlio alla madre. La sua è una famiglia asimmetrica: socialmente non presentabile, povera, tormentata, amata nel disordine cangiante, contro il conformismo del pregiudizio altrui. La prima cosa bella (titolo rubato alla canzone di Nicola di Bari) è un come eravamo picaresco della famiglia italiana, ma quella vera, quella che rompe l’iconografia fissa stabilita dai canoni ufficiali. Anna – un unico personaggio diviso fra un’ottima Micaela Ramazzotti e una strepitosa Stefania Sandrelli è una di quelle figure che quando si esce dalla sala non si dimenticano. Sono tre contro tutti: lei, i suoi due figli, Valerio Mastandrea (Bruno) e Claudia Pandolfi (Valeria). Bruno ama e detesta la madre. Claudia ama e detesta il fratello, che è il suo puntello, ma che l’ha anche abbandonata andandosene di casa, nel cuore di un’infanzia turbolenta. C’è un padre che ama ma se ne va, un amante che c’è, ma non può essere padre. La trama è tutta qui, ma da sola non vuol dire nulla: è il nastro della vita che ci scorre dentro. E se, come sostiene l’erede di Monicelli, “La nostalgìa non è un sentimento che amo”, la sovversione prodotta dal viaggio sentimentale del nucleo allargato riporta lì, negli anni settanta dove i colori erano sgranati, le biografie imperfette e – anche nelle divergenze o nelle menzogne – si intravedeva verità nei rapporti. Virzì torna nel suo guscio livornese molti anni dopo La bella vita e Ovosodo e come per magia, supera i precedenti, senza paura di mostrare l’anima in bilico (marina e terrigna) della sua città. In mezzo, una squadra di attori fantastici: dai non professionisti livornesi, ai volti famosi, dal vigile ipernevrotico e logorroico (Sergio Albelli) al cammeo esilarante dell’avvocato faccia-d’angelo (Paolo Ruffini) che scopre la verità su sua madre a 26 anni: che prima si vergogna, e poi – in un giorno in cui succede tutto – diventa uno di casa. Weddings & funerals in salsa toscana. “Mentre giravamo le scene più drammatiche ridevamo perchè ci eravamo ubriacati con la grappa” racconta Virzì (dev’essere vero). Ma intanto plasma un coro in cui non si disperdono le fisionomie dei tanti personaggi, le specificità, i caratteri, i tic, in una metafora corale. I Michelucci sono una famiglia divisa ma unita, afasica ma parlante, silente eppure chiassosa, bacata ma sana. Mastandrea, cerca negli psicofarmaci la soluzione al dilemma della sua infanzia: “Mamma, perchè sono così infelice?”, La Ramazzotti (bellissima) si avventura senza eresìa sulle tracce della Sandrelli e Stefania l’icona (che la incarna nella maturità), illumina il cielo con una prova gigantesca: nessuna altra attrice italiana può apparire bella e solare recitando su un letto da malata terminale. Il resto è un omaggio divertito alle vette più alte della nostra età perduta (c’è anche un finto Dino Risi che dirige Mastroianni ne La moglie del prete), al circo itinerante del set, alle figure minori (fantastico Marco Messeri amante fedele di una vita, all’altezza delle interpretazioni morettiane). “Non c’è autobiografia”, giura Virzì. Forse mente. La fotografia psichedelica di Pecorini (che non a caso lavora con Terry Gilliam), le musiche del fratello Carlo, l’umanità che non fa distinzioni, sotto la campana di una bontà non buonista. Mastandrea è un antieroe che dice di se: “Sono povero e ignoto”. E però, malgrado tutto, scintilla. Come chi vede il film.

Luca Telese
Malcom Pagani

Condividi:

 

Lascia un commento