Il Fatto Quotidiano

12 Novembre 2009
Occhetto: “Quel giorno alla Bolognina ho avuto paura”

Achille Occhetto ai tempi della svolta aveva una chioma folta e ribelle, i baffi nerissimi. Oggi è seduto nel divano della sua casa di piazza Farnese con un paio di lenti ovali cavouriane appese al collo. Gambe stese, piedi appoggiati su di un tavolino basso, mobili etnici intorno, la barba sale e pepe che è lo stilema della sua terza vita, il tocco per cui Giuliano Ferrara lo ha immaginato come un capitano melvilliano. Bisogna misurare questa metamorfosi per capire quanto sono stati lunghi i venti anni che lo separano dalla Svolta della Bolognina.
Occhetto ieri ha fatto il giro delle televisioni, ma un altro strano paradosso illumina l’anniversario: i grandi giornali e i leader della sinistra sembra che non vogliano ricordare volentieri la Svolta, che non sappiano bene come sistemarla. Dovrebbe essere una festa dicompleanno, ma curiosamente Pierluigi Bersani non spegnerà candeline. Occhetto andrà alla Bolognina il 12 con Piero Fassino, verrà scoperta una targa, ma resta una padre ingombrante per le classi dirigenti di oggi. Inizia l’intervista con un giuramento che rispetta (“Non parlo di D’Alema!”) e con una punta di fastidio quando provo ad incalzarlo sui “misteri” della Svolta. Ma non mi nega una risposta.
Molti hanno dubitato del fatto che lei avesse deciso tutto da solo, impulsivamente e senza consultare nessuno.
“Invece è  proprio così. La Svolta fu preparata per un anno, covò in me, ma quella mattina scelsi la Bolognina in assoluta solitudine”.
Teresa Bartoli, giornalista del Mattino e sua biografa: ‘Se Achille avesse  avvisato qualcuno’ lo avrebbero rinchiuso buttando la chiave’.
 (Una pausa) “E’ ragionevole. Dopo hanno provato persino a farmi passare per pazzo”.
Altri hanno detto: farla dopo la caduta del muro era troppo tardi.
(Sorriso ironico). “Ah sì? Dove erano tutti questi coraggiosi prima della Bolognina?”.
In ogni caso la scelta del luogo era estemporanea: non c’erano le tv, non c’erano i grandi giornali…
“La rivendico. Per me quel luogo rappresentava simbolicamente il ritorno alla resistenza, alla casa della mia infanzia…”.
In che senso?
“Lì era nata la sinistra cristiana di Felice Balbo. Avevo visto comunisti, azionisti e socialisti lavorare insieme e poi dividersi per il tempo dei muri… La mia Svolta voleva ricomporre quella frattura”.
Nelle uniche foto di quel giorno, scattate dal fotografo Umberto Gaggioli, lei ha un’espressione quasi triste.
“Mi stavo liberando di una angoscia che mi inseguiva da tempo, giorno e notte: la paura di essere travolti dal nuovo senza capire”.
Immaginiamo che lei non fosse andato dai partigiani, il 12 novembre…
(lampo divertito negli occhi) “Qui non ci sono ‘se’… So bene cosa sarebbe accaduto. Avremmo scritto un bellissimo documento, pieno di intelligenti rilievi critici. Approvato in ogni dettaglio da tutti i maggiorenti. E saremmo scom-par-si!”.
Fu un ex partigiano, il comandante Wiliam a consigliarle quella sezione. Quasi un caso…
“E’ vero. Ma io la scelsi”.
Cosa ricorda del momento in cui iniziò a parlare?
(Altra pausa) “Avevo una paura fottuta”.
Quale?
“Che mentre spiegavo quello che volevo fare, salisse un brusio, un brontolio corale di dissenso. Una di quelle vibrazioni che possono uccidere un discorso”.
E invece?
““L’applauso fu convinto”.
I due cronisti presenti dicono che molti ex partigiani non capirono fino in fondo.
“Non scherziamo!  Non  dissi: ‘cambiamo nome’. Ma tutti capirono il senso del cambiamento che proponevo: ‘Bisogna trovare vie nuove!’”.
Rifarebbe tutte le scelte di quella mattina?
“Tutte. La Bolognina ebbe un impatto simbolico enorme: quel giorno, e in quel momento. Se avessi parlato in un palazzetto dello sport non avrei comunicato quella passione”.
E’ vero che a parte i suoi collaboratori e i Rodano non consultò nessuno?
“Nessuno”.
Scalfari scrisse tre mesi prima : ‘Il Pci cambierà nome’”.
“Era un auspicio mille volte ripetuto, se ne parlava da anni”.
Una biografia su di lei parla di una cena con lui.
“E’ una delle più grandi balle della storia”.
E D’Alema?
“Non gli dissi nulla”.
Ha detto che l’unico dissenso che non aveva previsto era quello di Ingrao.
“E’ vero. Ma al di là dei dirigenti pensavo di rischiare molto di più”.
In che senso?
“Io avevo messo in conto di poter finire in minoranza”.
Ne parlò con Gorbaciov, prima?
“No. L’ultima volta in cui lo avevo visto ero io che chiedevo a lui della Perestrojka”.
Ebbe una influenza il suo viaggio in America con Napolitano pochi mesi prima?
(Silenzio).“Molta. Ero andato a presentare il Nuovo Pci. Anche i lberal che ci guardano con più simpatia ci chiedevano: ‘Ma come potete mantenere quel nome?’. Ebbi la certezza che non potevamo più essere capiti”.
Neanche Napolitano aveva informato?
“Nemmeno lui. Ma So che aveva molti dubbi, era tentato di opporsi perchè temeva che la Svolta avrebbe allontanato l’Unità socialista. Lo convinse Macaluso”.
E’ una notizia.
“Ma non la scriva non voglio essere costretto a smentire. E’ sul Colle ora. Ed è vero che ha sempre voluto il cambio del nome”.
Lei è ancora oggi molto più popolare fra i militanti che fra i i dirgenti.
“E’ innegabile. Ma deve chiedere a loro il perchè di questa ingratitudine”.
Cosa resta della Bolognina oggi?
“Credo che sia molto facile il conto: senza la Svolta, adesso è certo, saremmo stati spazzati via”.
Invece?
“Invece il centrosinistra è andato due volte al governo. Abbiamo avuto ministri, sottosegretari, incarichi…”
C’erano due anime nella Svolta?
“Si: quella degli svoltisti convinti, che come me volevano uscire a sinistra dalla crisi”.
E poi D’Alema…
“…E poi… i malpancisti che chinavano la testa davanti al vento, che facevano un calcolo di utilità e di spendibilità personale”.
Quando si accorse di queste resistenze?
“Troppo tardi. All’inizio non le vidi. Il mio sforzo era rivolto a conquistare i compagni del No”.
A Bologna lei pensò di avercela fatta.
“E invece  avevo fatto l’errore di accettare il meccanismo del doppio congresso. Cercavo un appeacement, ma si perse lo slancio.”.
A Rimini lei non fu eletto per il mancato quorum
“Ma che senso ha parlarne? Ha poca importanza”. 
Lei inventò la “Cosa” per non usare il vocabolo “partito”.
Una balla dei giornali. Io traducevo dal latino: nomina sunt consequentia rerum. Il concetto fu banalizzato”.
Sente di aver perso?
“Senza la Svolta non sarebbe nato l’Ulivo. Anche il Pd, in parte, è in continuità con la Bolognina”.
Però lei non è iscritto: ed è in Sinistra e libertà.
“Per questo non ho votato alle primarie”.
E di Bersani che pensa?
“Ancora non ho chiaro se si libererà di alcune scorie”.
Aveva promesso che non diceva cattiverie di D’Alema…
(ghigno divertito) “No, questa vlta mi riferivo davvero alla campania, ai capibatone del Sud”.
C’ ancora qualcosa della Svolta che lei vorrebbe recuperare?
“Ci sono almeno tre idee cardine. Primo: la nuova sinistra non può che nascere dalla libertà”.
Secondo?
“Io volevo più pubblico. Non certo per sostituirsi al mercato, ma per regolarlo”.
Terzo?
“La questione morale è ancora più centrale di allora, se possibile. A quelli che dicono: va riabilitato Craxi….”.
Ovvero Veltroni.
“…Rispondo: semmai va fatto il contrario. Berlinguer capì che alla politica serviva un codice morale più alto. E vale oggi ancora più che allora”.

Luca Telese

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2 commenti »

  1. Mi chiedo come mai, dopo tanti anni, certa gente, quando parla con i giornalisti, spera davvero che dicendo “Non lo scriva”, quelli poi davvero non scrivano. Mah. Comunque bella l’intervista. Magari al PD ci fosse uno così. Che dire: speriamo che Bersani davvero si liberi di certe scorie…

  2. PRESIDENTE, RITIRI QUELLA NORMA DEL PRIVILEGIO

    SIGNOR Presidente del Consiglio, io non rappresento altro che me stesso, la mia parola, il mio mestiere di scrittore. Sono un cittadino. Le chiedo: ritiri la legge sul “processo breve” e lo faccia in nome della salvaguardia del diritto. Il rischio è che il diritto in Italia possa distruggersi, diventando uno strumento solo per i potenti, a partire da lei.

    Con il “processo breve” saranno prescritti di fatto reati gravissimi e in particolare quelli dei colletti bianchi. Il sogno di una giustizia veloce è condiviso da tutti. Ma l’unico modo per accorciare i tempi è¨ mettere i giudici, i consulenti, i tribunali nelle condizioni di velocizzare tutto. Non fermare i processi e cancellare cosè anche la speranza di chi da anni attende giustizia.

    Ritiri la legge sul processo breve. Non è una questione di destra o sinistra. Non è una questione politica. Non è una questione ideologica. E’ una questione di diritto. Non permetta che questa legge definisca una volta per sempre privilegio il diritto in Italia, non permetta che i processi diventino una macchina vuota dove si afferma il potere mentre chi non ha altro che il diritto per difendersi non avrà più speranze di giustizia.

    ROBERTO SAVIANO

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