Il Giornale

17 Gennaio 2009
L’eroe studente dimenticato da tutti

Praga – Praga, 16 gennaio 2009. Davanti al museo nazionale c’è una piccola pattuglia di italiani. Un ambasciatore, un ministro, un pugno di giornalisti arrivati da Roma. Il ministro della Gioventù, Giorgia Meloni, ha un mazzo di fiori in mano. L’ambasciatore Pigliapoco viene accolto da un rappresentante del governo ceco. Dopo pochi minuti arriva un ragazzo incappottato. È il più giovane ministro d’Europa Ondrej Liska, omologo della Meloni nel governo ceco. La delegazione improvvisa una cerimonia semplice deponendo il mazzo su un cippo molto semplice, che emerge dal marciapiede, con una croce di bronzo e una scritta incisa sopra. È il nome di uno studente che ha dato la sua vita contro il totalitarismo: sono quarant’anni, proprio oggi. Il tono è informale. Non ci sono fanfare, picchetti, discorsi ufficiali.

La Meloni depone i fiori sul cippo, e dice al suo collega, in inglese: «Noi siamo qui, oggi, per ricordare un ragazzo cecoslovacco che è diventato un simbolo di libertà per i giovani di tutta Europa. E abbiamo un’idea da condividere. Ci piacerebbe dare vita a una iniziativa italo-ceca, da proporre a tutti i governi dell’Unione: dare vita a un concorso europeo per giovani artisti che intendano dedicare un monumento a Jan Palach. Ed esporre queste opere in piazza San Venceslao, nell’anniversario della morte di Jan». Liska è giovane anche nei modi. Ha sposato un’italiana, non ama il burocratese. Risponde quasi subito: «Sono qui perché ho molto apprezzato la vostra iniziativa. L’idea mi pare molto interessante. Facciamolo».

Praga, 16 gennaio 1969. Jan Palach ha raccolto tutte le sue lettere in un borsello, ha mangiato il suo ultimo pasto alla mensa universitaria, ha preso l’ultimo autobus della sua vita, ha comprato due latte in un ferramenta, le ha riempite di benzina. Il suo Paese, la Cecoslovacchia, è sotto il tallone di una occupazione armata dal 20 agosto 1968. Quella mattina i carri armati sovietici sono entrati nel paese, occupandolo, per mettere fine alla «Primavera di Praga», il movimento riformatore che vuole cambiare faccia al socialismo reale. Il segretario del Pcus, Leonid Breznev, considera quell’esperimento, un pericoloso precedente. Per tre volte incontra i dirigenti del partito cecoslovacco, intimandogli di rientrare nei ranghi. Ma a Praga non accettano ultimatum. Così l’unica alternativa, che resta all’Urss è l’intervento armato.

Il 24 agosto, dopo 4 giorni di pressioni inenarrabili, Alexander Dubcek firma un documento che legittima l’invasione sovietica. Il paese si avvia verso la capitolazione, ma il malcontento è enorme. Jan ha solo 22 anni: studia filosofia all’università Re Carlo della capitale cecoslovacca. Scrive a tutti i suoi amici che serve un gesto di ribellione, bisogna fare qualcosa, dice. Propone di occupare una radio, e di mandare dei messaggi di condanna dell’intervento sovietico. Gli altri ragazzi gli chiedono se per caso non stia scherzando.

Così, quando l’occhio di Jan cade su un ritaglio di giornale in cui si racconta dei monaci vietnamiti che si sono dati fuoco per opporsi all’occupazione americana, il giovane studente matura la scelta più estrema, più radicale, più coraggiosa. Quel 16 gennaio, quando arriva in piazza San Venceslao, nel cuore della città, proprio davanti al museo Nazionale, e di fronte al parlamento federale, il simbolo di quello Stato, ha già programmato tutto: rovescia le due latte, si da fuoco. Morirà tre giorni dopo, rifiutando ogni cura. I suoi funerali diventano l’innesco di una nuova rivolta contro la normalizzazione, l’ultima fiammata di rabbia, prima di venti lunghi anni di stagnazione.
Praga, 16 gennaio 2009. Per un’intera stagione Jan è stato il simbolo della rivolta per tutto il paese. Questa mattina, invece, Praga sembra quasi essersi dimenticato di lui. Attorno alla targa, in piazza, ci sono delle persone con i capelli bianchi e dei cartelli in cecoslovacco appesi al collo. Li guardi bene: uno di loro è Mario Capanna. Sono venuti qui anche loro, gli ex sessantottini italiani, «Per non dimenticare». Ma i praghesi non ci sono. Ha ragione il giovane ministro ceco, quando dice alla Meloni: «Avete fatto un gesto importante».

Paradossalmente i cechi si sentono molto lontani dall’eroismo di Palach. Il dibattito di questi giorni, sui giornali è stato: se avesse vinto lui, forse non ci sarebbe stata «la rivoluzione del 1989» (quella su cui si fonda la nuova repubblica).

Nell’università che Jan frequentava il ricordo invece è vivissimo. I professori e i ragazzi hanno curato un volume enciclopedico, c’è il suo carteggio, c’è la sua tessera universitaria. E poi le foto dei funerali, epici, partecipati da quasi duecentomila persone. Davanti ai pannelli di questa mostra, il ministro della gioventù spiega il suo progetto: «Costruire una vera identità europea, significa essere consapevoli della storia europea, anche al di fuori dei confini nazionali. Quindi per noi Palach è sicuramente, un patriota cecoslovacco, ma anche un simbolo attuale e vivo di tutti i giovani europei. È un simbolo di libertà, di ribellione, di coraggio generazionale».

Così fu, anche se quel seme ci ha messo venti anni a germogliare. Sarebbe davvero bello, se nel prossimoa anniversario, il concorso di cui i due giovani ministri parlano di fronte a una croce di bronzo piantata nell’asfalto, potesse diventare una realtà. E far bruciare ancora, questa volta solo nella creatività artistica e nell’immaginario, le coscienze dei ragazzi di un intero continente.

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2 commenti »

  1. Chi ha vissuto nella Praga del comunismo reale dopo ’68, come me, non si meraviglia certo della sostanziale assenza di passioni che ancora permane nell’animo ceco, sia per la vicenda Dubcek che per quella Palach. E’ un argomento che interessa più, in ritado, l’Occidente che non i cittadini cechi.
    Influenzati dai nostri mass media degli anni ’70 credevamo in buona fede che tutti i cechi rimpiangessero Dubcek e Palach. Invece nessuno aspettava il ritorno di Dubcek, come un Peron argentino redivivo, e nessuno ti sapeva o ti voleva indicare il posto dove si era bruciato Palach. Per non parlare dell’ assenza di notizie certe sul numero e lidentità di coloro che si sarebbero dati fuoco dopo Palach. Il ’68 cecoslovacco era stato molto diverso dal ’56 ungherese che, non dimentichiamolo, era avvenuto immediatamente dopo il rapporto Kruscev sui delitti dello stalnismo. Il ’68 praghese avvenne invece a dieci anni di distanza e in tutto altro contesto. Giocava anche la rivalità tra cechi e slovacchi che poi si sono scissi : Dubcek era slovacco e se non altro per questo motivo non era paricolarmente amato dai cechi. Ci fu poca passione nel dopo ’68 e nessuno osò più tardi, neppure gli intellettuali delle 2000 parole, di sostenere Havel e carta ’77 . Regnava allora in Cecoslovacchia quello che veniva definto “il biafra dello spirito”, continuavano le delazioni contro chi aveva sostenuto Dubcek. Il comunismo cecoslovacco cadde dopo quello sovietico e non certo perchè i giovani europei avessero dato segni visibili di condivisione con la Primavera di Praga ed l sacrificio di Jan Palach.
    Il merito va dato piuttosto a Regan, al papa polacco, allo stesso Gorbacev

  2. Luca, un rifondarolo che scrive sul Giornale: chessàdafàpeccampà…

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