Il Giornale

18 Novembre 2008
Villari mette sotto scacco i suoi: non mi dimetto

Roma – Se lo aveste visto ieri, all’uscita dell’incontro con Walter Veltroni, lo avreste notato mentre esternava con la gravità e la solennità di un capo di Stato. Meraviglioso. Se non altro perché, fino alla settimana scorsa, nessuno, tranne gli addetti ai lavori – in Italia -, sapeva chi fosse Riccardo Villari. Persino tra i deputati del centrosinistra, quando in Transatlantico si era diffusa la notizia della sua elezione, qualcuno domandava vagamente perplesso: «Ma Villari chi? Lo storico?». Se lo guardavi, ieri, con la sua faccia rubiconda, e quel guizzo di furbizia picaresca dardeggiante nello sguardo, mentre intratteneva un capannello sterminato di giornalisti con le sue dichiarazioni, mentre spiegava che «il Pd è la mia casa», e contemporaneamente aggiungeva «non mi dimetterò, se non quando si troverà un altro presidente di commissione da eleggere con un voto condiviso», capivi che Riccardo Villari, in questo momento, sa meglio di tutti che c’è un fattore che in queste ore gioca a suo favore. Il tempo.

Raccontano che Aldo Moro, in una conversazione con Pietro Nenni, disse una volta di Beniamino Andreatta, padre nobile dell’Ulivo: «Lui è così. Se c’è un problema lui ha dodici soluzioni. Fra queste, stai sicuro, c’è anche quella giusta». Non sappiamo se Villari avesse in mente questa massima, quando ha pensato la mossa che ha mandato in tilt il Pd accettando di farsi votare. Di sicuro, conoscendo i suoi polli, sapeva che fra tutte le diciotto soluzioni possibili al devastante paradosso politico aperto dalla sua nomina alla testa della commissione di Vigilanza, i leader del Pd avrebbero faticato non poco a trovare quella giusta. E – soprattutto – sapeva che avrebbero impiegato tempo, troppo tempo. Perché i fatti ridotti all’osso sono questi. Dopo uno stallo defatigante e infinito sulla candidatura di Leoluca Orlando, sgradita al centrodestra, un parlamentare del Pd viene insediato alla testa di quella stessa commissione con i voti del centrodestra. Una operazione «cavallo di Troia», ha scritto Francesco Merlo su La Repubblica. Una «gesto di responsabilità istituzionale», risponde lui. Una abile operazione trasformistica, pensano più o meno tutti. Che però sta in piedi. Così, all’invito tempestivo di Veltroni che gli chiede di dimettersi immediatamente, Villari garbatamente risponde picche, sempre con quel sorriso stampato sul volto, e con quel guizzo di furbizia picaresca nello sguardo.

Avrà le sue ragioni demoscopiche Luigi Crespi a certificare con un sondaggio che all’80 per cento degli italiani importa poco o nulla di chi sia il designato a guidare la commissione di Vigilanza. Sta di fatto che anche quelli a cui della Vigilanza non frega nulla capiscono che c’è un ennesimo braccio di ferro fra maggioranza e opposizione, e che in questa contesa il gruppo dirigente del Pd sta perdendo la faccia. Infatti, mentre stacca i telefonini e tutti i giornali d’Italia lo inseguono, mentre continua a chiedere incontri istituzionali (dal presidente della Repubblica – che pure lo ha snobbato – a quelli delle Camere) per far melina, Villari ha già raggiunto due risultati. Guadagna tempo e visibilità. Più passa il tempo e più per il Pd ogni soluzione diventa difficile. Più Villari acquista visibilità e più l’opzione che per Veltroni sarebbe quella obbligata, l’espulsione (perlomeno dal gruppo parlamentare) si fa dolorosa. Così, giunto alla sua seconda mano al tavolo da gioco, spalleggiato da un consigliere politico come Claudio Velardi, Villari ha già ottenuto un terzo risultato: mentre all’inizio l’espulsione sembrava un sensato provvedimento disciplinare, ora sembra già ingiusta, un gesto brutale da accostare alle epurazioni anni Cinquanta. E se una cosa fa male agli ex comunisti – compresi quelli che dicono di non esserlo mai stati – è proprio essere accostati agli ex comunisti.

Già, se guardi Riccardo Villari mentre, rispondendo alla selva di microfoni che si tendono verso di lui, si gode la sua nuova celebrità, capisci anche che questo è l’ennesimo confronto esistenziale fra le anime mal composte del Pd. Lui, che è anche fisicamente la quintessenza antropologica della tradizione democristiana, con quel collo inquartato e quella disinvoltura da politicone del Sud, gioca al gatto e il topo con i suoi leader, che sono la quintessenza della tradizione postcomunista. Secondo la scuola di Botteghe Oscure le dimissioni sono un’arte, un dovere o un gesto nobile, anche se dovuto. Secondo la scuola di Piazza del Gesù sono una fantasia politica o un’aberrazione: minacciarle è un dovere, darle un peccato mortale. Non è un caso che Villari sia un allievo di Clemente Mastella, lo stratega del “penultimatum”, uno che ora dice: «Dopo aver minacciato dimissioni per tutta la legislatura, ho dei rimpianti per l’unica volta che le ho date veramente». Divino. Villari non ci pensa nemmeno, e trasforma la sua analisi politica in una diagnosi. Se non ci sono anticorpi i virus si fortificano. E in un momento in cui il Pd ha la febbre alta, il suo organismo è così debilitato che decidere diventa letale. Se lo aveste visto ieri sera, mentre esternava stretto nel capannello dei microfoni, con quel sorriso sornione stampato in viso, avreste capito che lui, il dottor Villari, il cavallo di Troia, l’epidemiologo, l’indimissionabile, ha capito una cosetta semplice ma devastante: che Veltroni ha fatto dell’alleanza con Di Pietro una malattia. Che lui è il virus prodotto da quell’infezione. E che il Pd è così debole da non sopravvivere ad un antibiotico. Figuriamoci ad una purga.

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