Il Giornale

11 Settembre 2008
Ma se la storia è così perché la banalizza?

Ho letto con stupore, e con un po’ di amarezza, l’intervista di Luca Telese a Giampaolo Pansa pubblicata ieri dal Giornale. Non solo perché per Pansa nutro un affetto sincero (sin dai tempi in cui, giovane della Dc, provavo un misto di rabbia e fascino per gli articoli impietosi in cui lui, da sinistra, attaccava la Balena Bianca, il partito in cui militavo con entusiasmo, credendo fosse possibile cambiarlo senza demolirlo) ma anche perché gli ho riconosciuto che con la sua serie di libri sui «vinti» ha aperto una finestra di luce su un pezzo di storia del nostro Paese che non può essere per sempre accantonato e dimenticato solo perché scomodo.
Ed è anche per questo che ho accettato volentieri di presentare nella mia città, Ferrara, uno dei suoi libri, cogliendo quell’occasione per raccontare pubblicamente la storia della mia famiglia.
Ora l’accusa che Pansa mi ha formulato è di avere «ringhiato» contro La Russa e le sue affermazioni sui giovani di Salò mentre non avrei potuto farlo proprio per la mia storia.
Innanzitutto non mi pare di aver «ringhiato», ma a una domanda di un giornalista ho educatamente risposto che condividevo le parole del presidente della Repubblica, così diverse da quelle del ministro della Difesa pronunciate poco prima, e ho tentato di ricordare che l’antifascismo è un elemento fondante della nostra democrazia repubblicana e pertanto dovrebbe essere un valore condiviso da tutte le forze politiche.
Ma poi credo, francamente, che proprio la mia vicenda familiare, molto simbolica come molte storie italiane, mi consenta di esprimere qualche giudizio non ideologico, ma vissuto.
Ripercorro con poche parole questa storia nella sue completezza, per i lettori più che per Pansa, che la conosce tutta anche per averla riportata in uno dei suoi libri e che ieri invece nell’intervista (e questa è la parte che mi ha lasciato un po’ di amarezza) ha raccontato solo in parte, omettendo il finale.
Mio nonno materno, cui ho voluto un gran bene, aderì prima al fascismo, poi alla Repubblica di Salò. Ci credeva, e negli incarichi amministrativi che ebbe riuscì a farsi benvolere da tutti. Dopo la Liberazione per qualche anno restò lontano dalla famiglia e dal suo paese natale, Poggio Renatico, per evitare le vendette e le rappresaglie che segnarono drammaticamente quel tempo.
Così mia mamma, innocente e bambina, il mattino andava a scuola con la testa bassa, per non leggere sui muri del paese le frasi minacciose contro suo papà.
La parte che Pansa non ha raccontato, ma è quella che più simbolicamente dimostra come gli italiani abbiano costruito la riconciliazione nazionale molto prima delle loro classi dirigenti, è che, poco tempo dopo la Liberazione, quella ragazza, mia mamma, si fidanzò e poi si sposò con mio padre, un giovane ex partigiano, componente il Cln sfuggito alla fucilazione, da poco diventato deputato della Democrazia cristiana. Mio nonno approvò quella scelta e la mia famiglia è stata per anni unita sull’affetto e sul rispetto.
Anche l’Italia, dopo le laceranti ferite del primissimo dopoguerra, è stata in fondo così.
Ora la domanda è: perché questa mia vicenda familiare dovrebbe ostacolare un mio giudizio sul fascismo e una mia contrarietà al tentativo, oltre mezzo secolo dopo, di mettere tutti sullo stesso piano: chi combatteva per una causa giusta e chi dalla parte sbagliata?
Non è un problema di rispetto per la vita di tutti. È che la storia non può essere cambiata e che la nostra democrazia ha le radici in quel riscatto nazionale reso possibile dalle donne e dagli uomini della Resistenza, dopo le vergogne della dittatura, degli omicidi politici, delle leggi razziali, dell’alleanza col nazismo, dei morti di una guerra tragica e folle.
Quando si piange in Normandia di fronte a quel prato struggente pieno di croci bianche, quando si visita Auschwitz, quando si prega a Marzabotto o alle Fosse Ardeatine, a qualcuno può venire in mente di mettere sullo stesso piano i soldati americani e i loro nemici, le vittime innocenti dell’odio razziale e i loro carnefici?
Furono in molti, e fu così anche per mio nonno, a trovarsi dalla parte sbagliata in buona fede, spesso anche solo per ubbidienza e non facendo del male a nessuno, ma non si può riscrivere la storia, non si può cercare di equiparare ciò che non è equiparabile soltanto per giustificare, come è stato forse, anche inconsapevolmente, in questi giorni per Alemanno e La Russa, le proprie passate imbarazzanti militanze.
In ogni democrazia matura lo scontro politico, anche il più duro, avviene sempre dentro un sistema di regole e di valori comuni.
Gli episodi e le frasi infelici di questi giorni proprio su questo devono interrogarci. Possono gli avversari politici anche in Italia, più di sessant’anni anni dopo la fine del fascismo, ormai vent’anni dopo la caduta del Muro di Berlino, condividere senza distinguo i valori fondanti della nostra Costituzione e riconoscere una storia nazionale condivisa?
O dobbiamo aspettare che passi un’altra generazione?
Grazie della cortese ospitalità.

Dario Franceschini
* vicesegretario del Partito democratico

*****

L’amarezza di Dario Franceschini è immotivata. La lettera che ci manda – bella, evidentemente scritta a cavallo fra l’emozione del lessico familiare e la razionalità del ragionamento politico – infatti, contribuisce, dopo l’intervento di Giampaolo Pansa, a elevare il livello di una polemica che in questi giorni si è incartocciata sui botta e risposta, sullo scambio di accuse, sulla riduzione del nodo più complesso della storia italiana a disputa di basso profilo. Franceschini fa bene a coronare il suo araldo, raccontando che il matrimonio di sua madre con un ex partigiano (e futuro parlamentare democristiano) rappresentava, a suo modo, una piccola-grande pacificazione. Non solo Pansa non lo nega, ma anzi, lo ha sostenuto con altri esempi anche nell’intervista di ieri. Non ha mai equiparato «le vittime innocenti dell’odio razziale e i loro carnefici». Spiega e ripete da anni: «Continuo a considerare la Resistenza – cito testualmente – la mia Patria morale».
Anzi, va detto di più. Ad essere onesti, la pericolosa «equiparazione» revisionista paventata da Franceschini, non l’ha fatta nemmeno Ignazio La Russa nell’ormai celebre discorso dell’8 settembre. E c’è grande differenza fra quel che ha detto Gianni Alemanno su fascismo e leggi razziali e quel che ha detto La Russa. Ovvero che chi scelse di opporsi ai nazisti e ai loro alleati costruì la democrazia in Italia, mentre invece chi – «in modo soggettivo e non equiparabile», ha specificato il ministro della Difesa – «scegliendo di arruolarsi nella Repubblica sociale, credeva di difendere la patria». Dice Pansa: «Quella scelta l’hanno fatta mezzo milione di persone, è grottesco etichettarli tutti come torturatori e amici dei nazisti». E qui si arriva alla collisione fra piccola e grande storia che ha «amareggiato» Franceschini. Pansa (e anche noi) è convinto che i dirigenti del Pd si siano lasciati trascinare da un bisogno di marcare identità (altrimenti avrebbero dovuto criticare anche Napolitano e Violante!). E Pansa crede (come noi) che la storia di questa guerra civile vada affrontata nella sua «complessità», senza strumentalizzazioni, prese di posizione manichee, opportunismi politici. Se ha citato Franceschini (e suo nonno), è proprio perché, da chi ha inscritta nel suo Dna la bellezza di una storia complessa, ci si aspetta una risposta non banalizzante. La polemica non è, come scrive Franceschini, fra chi «mette sullo stesso piano» chi scelse la Resistenza e chi scelse l’Asse e lui che non lo fa. Ma fra chi crede che oltre il giudizio politico che ognuno di noi dà di quelle scelte, si possa – dopo mezzo secolo! – assimilare, nel rispetto civile, sia i vincitori che i vinti.
Pansa ci ha scritto sopra una biblioteca, e sembra che continui a fare scandalo. Ma questo stesso concetto lo espresse Palmiro Togliatti (!) quando decise l’amnistia che chiuse la guerra civile, e l’ha raccontato, in forma quasi lirica, Cesare Pavese, nella celebre e bellissima ultima pagina che chiude La casa in collina. Non si trattava certo, nel primo e nel secondo caso, di pericolosi «revisionisti».

Condividi:

 

Lascia un commento