Il Giornale

3 Luglio 2008
Intellettuali radical chic: minacciano l’espatrio ma non se ne vanno mai

Ultimo aggiornamento alla voce: antiberlusconismo apocalittico. Paolo Flores D’Arcais approfitta di una intervista a Il Riformista per asserire con tono grave: «Non siamo mai usciti dal regime, e ci stiamo affondando sempre di più». Nello stesso giorno Andrea Camilleri esce dai panni di creatore del commissario Montalbano, per infilzare su La Stampa, a colpi di versi, «Gli ex adoratori di Stalin». Vi state chiedendo chi? Ma i veltroniani del Partito democratico, proni al Cavaliere (sarà pure vero, ma sono i suoi ex compagni!). Terzo pronunciamento, quello di Umberto Eco, che torna a sventolare un vecchio classico: «Aderisco alla manifestazione dell’8 di luglio perché c’è la democrazia in pericolo».
Ora: a parte che il professor Eco se, oltre che dedito alle solidarietà di carta bollata, lo vedessimo davvero in piazza con i girotondini a sfidare la canicola romana di luglio gli intitoleremmo su questo giornale, perlomeno un poema. Oltre a questo, non si può non constatare ancora una volta che sembra non ci siano vie di mezzo per gli intellettuali italiani: o la totale assenza di opposizione, e il conformismo del non disturbare il manovratore, o lo smottamento verso le invettive savonaroliane. Ogni volta che Berlusconi va al governo – insomma – loro sono lì ad affermare che la democrazia si è estinta, la libertà è a rischio, il golpe c’è già stato, e forse non si rendono conto che la circostanza che lo dicano ormai da più di quattordici anni (con l’intervallo significativo di due elezioni in cui il centrosinistra ha vinto e riperso) è se non altro una confutazione de facto delle loro stesse tesi. Misticamente persuasi all’idea che Berlusconi non possa vincere in modo democratico, insomma, gli intellettuali di quell’accademia ad alta tensione morale (e alto reddito), che per semplicità si definisce con l’etichetta di «radical chic», si dimenticano di protestare ogni volta che a fare sfracelli sono i dirigenti del centrosinistra, e diventano invece prodighi di invettive ogni volta che è il Cavaliere a governare. Verrebbe da dire che se avessero azzardato un barlume di critica, o perlomeno di analisi, quando a fallire gli obiettivi c’erano i leader che loro stessi hanno contribuito ad incensare, oggi li si ascolterebbe più volentieri. Invece è il contrario: se non altro perché la frequentazione degli archivi dimostra che le loro affermazioni di principio, di preoccupazione e gli annunci di possibile espatrio sono così ciclicamente ricorrenti da rendere inattendibili anche le ripetute certificazioni di rischio istituzionale. Alti proclami ci avevano annunciato partenze imminenti. Ad aprire le danze, in tempi lontani, fu Franco Battiato. Il sommo mistico della musica leggera italiana annunciò serio che avrebbe lasciato con la morte nel cuore la sua Catania «se avesse vinto Scapagnini». Ma purtroppo Scapagnini vinse contro Enzo Bianco, e fortunatamente per noi Battiato, per una volta privo di «centro di gravità permanente», continuò le sue ricerche sapienziali nelle albe della Trinacria. Lo scrittore Vincenzo Consolo, destinato a passare alla storia come primo antiberlusconiano espatriante, scelse un’occasione più aulica, e nel 1994 spiegò con pari solennità e un piglio di furia etica che se avesse vinto Berlusconi, anche lui sarebbe andato all’estero. Però anche in quel caso Berlusconi vinse davvero. E ancora, per felice incoerenza, l’Italia non perse il talento dello scrittore siciliano. Anche Umberto Eco era pronto ad andar via. Anche lui a Parigi: anche lui non l’ha fatto. Così è riuscito a partecipare al famoso convegno ulivista di Gargonza, che ha fatto più danni al centrosinistra di tantissimi tentativi di assalto berlusconiano: fu lì infatti che D’Alema nel 1996 pose le basi per liquidare Prodi solo due anni dopo. Anche allora Eco non fece sentire la sua voce critica, lui che era un prodiano sfegatato.
Fece un meraviglioso intervento, invece, a un convegno cofferatiano nel 2003, disegnando una sagace pantomima sul rapporto fra «intellettuali e potere» nella storia e spiegò che c’e n’erano di tre tipi. Il primo: «l’intellettuale usato dalla politica». «Modello: Ulisse». Il potere gli chiede una consulenza, lui gliela offre (vedi cavallo!) e chiude il rapporto: «Non biasimiamolo: di solito – sorrideva Eco – questo tipo di intellettuali finiscono buddisti o alla corte di Berlusconi». Poi c’è l’intellettuale «che sogna il potere», modello: «Platone». «Più dannoso di Cicciolina in Parlamento». Terzo esempio, «Aristotele: ovvero l’intellettuale – concludeva Eco – che entra in rapporto con il politico e si mette al suo servizio». Ma alla fine, scherzava «Ci finisce solo a cena, per dirgli che libri ha letto». Chissà in quale modello inscriverebbe se stesso, il professor Eco. Di sicuro non l’idealista Socrate: se non altro perché era uno di quelli che dopo aver annunciato di bere la cicuta, poi lo faceva davvero. Mica mandava lettere ai suoi discepoli per spiegar loro che ad Atene c’era la dittatura.

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