Il Giornale

7 Settembre 2007
Un gancio destro in faccia alla destra
di Luca Telese

Il libro è uscito da due giorni, e già tutti ne parlano. E non potrebbe essere altrimenti, perché è un pamphlet agile, sapido, a tratti addirittura feroce, scritto da un giovane giornalista di destra, con l’obiettivo di demolire il principale partito della destra. Ed infatti Il passo delle oche, è il parto di Alessandro Giuli (Einaudi, pagg. 176, euro 14,50), giovane firma del Foglio di Giuliano Ferrara, pupillo prediletto di quell’eretico di destra che è Pietrangelo Buttafuoco.
Appena lo prendi in mano, senti che l’indice dei nomi scotta, e la quarta di copertina alletta: «il viaggio di Alleanza nazionale – informa lo strillo – dalle catacombe missine ai fasti del potere postfascista». E subito dopo una sentenza lapidaria: «La storia di una transizione verso il nulla». All’interno, nell’intramatura dei capitoli, il lettore ripercorre un bestiario della classe dirigente del partito nato a Fiuggi, che pare scritto con la penna intinta nel cianuro. Giuli scrive con una lingua curata, con uno stile elegante, ci informa che «Fini e i suoi sono ritratti come statue parlanti scese dal piedistallo e osservate nel loro camminare». E basta sfogliare alcune pagine, per capire quanto sia vero. Gianni Alemanno? «Un vicino ambizioso». Maurizio Gasparri e Ignazio La Russa? «Un contorno piumato». Alessandra Mussolini è «arcistufa», Giorgia Meloni «arrembante», perfino lo scismatico Francesco Storace è un «preteso rivale».
Su Fini si abbatte un vento di tempesta: «Amletico». Di più: «Un leader politico sovrastimato ad arte, abbeveratosi per anni alla fonte gergale del neofascismo più o meno puro, alla sorgente della testimonianza urlata e della manovra demoparlamentare missina». Ancora peggio: il suo partito si è incarnato nella sua storia carismatica in un percorso trasformistico: «L’altroieri neofascisti per caso, ieri missini per necessità, oggi postfascisti per convinzione libertaria, e domani antifascisti per logica di causa-effetto».
A Giuli di An non piace proprio nulla: non gli piacciono i giovani, non gli piacciono le donne (con un’unica apertura di speranza riservata a Daniela Santanchè), non gli piacciono le deformazioni eretiche della nuova destra degli anni ’70, trova grotteschi i campi hobbit che avevano infiammato i giovani del Fronte della gioventù, non si commuove minimamente per «i ragazzi di via Milano» (quelli raccontati dal direttore del Tg2 Mauro Mazza, che sono cresciuti nella redazione del Secolo d’Italia), non gli piaceva per nulla l’almirantismo, che considera un’ambiguità, e non gli piace, udite udite, nemmeno Salò. «In quel contesto nasce il più autentico socialfascismo, il cosiddetto fascismo di sinistra al quale Almirante rivendicherà in origine la propria appartenenza e del quale con una naturalezza spiegabilissima muoverà in transito vero il comunismo della meglio gioventù intellettuale di Salò».
Che cosa piace a Giuli, lo diremo poi. Cio che conta, è che la sua scrittura intriga perché è senza rete, non fa prigionieri, è contro tutto e tutti, sia le persone, sia le diverse famiglie politiche e culturali della destra. E se il giornalista del Foglio pensa questo dei tempi aurei e mitologici del neofascismo italiano, vi potete immaginare già che cosa pensa della loro trasmigrazione al governo: «Hanno la fame dei neofascisti cresciuti a pane e frustrazione dormendo poco e male (Teodoro Buontempo in una Fiat 500 per diverse settimane) e costruendo su questa minorità non voluta una pastorale eroica». Peggio: «Una filosofia della purezza che alla prima prova dei fatti si è accartocciata su se stessa». Conclusioni drastiche: «In questo senso tutto l’assalto al cielo di An si è improvvisamente manifestato, come in un affresco simbolico ma dozzinale, nella stanza del governatore». Che poi sarebbe ancora Francesco Storace, per Giuli il paradigma dell’incompiutezza governista di An. Gli uomini della nuova destra sono «senza famiglia (culturale)», sono tutti «casa (Fini) e chiesa (altre frecciate feroci per i due «guelfi» Alfredo Mantovano e Riccardo Pedrizzi)», sono gente che quando è entrata nella stanza dei bottoni (ad esempio alla Rai), aveva come «punte avanzate Cristiano Malgioglio e Giovanni Masotti», «le sgallettate varie amiche dell’allora portavoce di Fini, Salvatore Sottile».
Le uniche cose che Giuli salva? Il proprio maestro, Pietrangelo Buttafuoco, il «manipolo di golpisti» che avrebbero voluto cambiare la Rai portando finalmente programmi di destra (fra cui lo stesso autore), e quei pochi che non hanno chinato la testa e sono stati fascisti nell’unico modo possibile secondo Giuli. Chi? Non i giovani intellettuali come Luciano Lanna, Angelo Mellone, Annalisa Terranova (colpevoli di aver contaminato l’Idea, con un immaginario pop, colpevoli di aver affiancato all’identità della destra cartoni animati, fascismi immaginari e quello che Giuli chiama il neodestrismo yeyé). Non i vecchi leader. Non i nuovi. Non i ragazzi del Fronte della gioventù. Non gli intellettuali della Nuova Destra nati da Stenio Solinas. L’unico fascismo a cui Giuli riconosce dignità è quello superomistico, etico, volontaristico nato intorno al barone Julius Evola: «In prima linea (scrive Giuli facendo sue le parole di Evola) dovrebbe stare l’impegno della sincerità, della lealtà, dell’assoluta aderenza a ogni impegno, a ogni parola data».
E quindi Giuli scrive, contro An, lo stesso libro che il suo maestro scrisse contro il fascismo italiano, corrotto dagli italiani. Al che ci sono due notizie: la prima è che Evola è tornato, la seconda che arriva sulle pagine della più antica e gloriosa casa editrice della sinistra italiana, la Einaudi.

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