Guardiamo le foto di Stefano Cucchi, in redazione, a Il Fatto, e restiamo tutti senza parole, attoniti. E’ successo ieri. Capita raramente, dopo anni che si lavora nei quotidiani questa sensazione di pietrificazione, di disgusto, di disagio fisico. Il desiderio di sottrarsi all’obbligo della cronaca, di guardare altrove. Per i giornalisti le notizie dovrebbero essere come le malattie per i chirurghi. Purtroppo o per fortuna non è mai così. Quelle foto ce le hanno portate in redazione, dopo la conferenza stampa della famiglia, Caterina Perniconi e Silvia D’Onghia, ricostruendo una piccola grande storia dell’orrore, quella di un ragazzo morto dopo un arresto. Aveva con se 20 grammi di droga.
Però adesso guardo le foto di Stefano Cucchi sulla prima pagina del nostro giornale, un cadavere adagiato sul tavolo, come una marionetta spezzata: esile, disarticolato, quasi scheletrito, perché Stefano era un tossico. Quello che taglia il respiro in petto, però, è che questo corpo sia martoriato. Stefano Cucchi è stato arrestato nella notte fra il 15 e il 16 ottobre. E’ morto una settimana dopo. Cosa sia successo, in questo intervallo, nessuno lo sa. C’è un itinerario, un piccolo calvario che quel corpo ha disegnato nel nostro sistema giudiziario e sanitario: ospedali, tribunale, carcere, obitorio. Guardi il cadavere, e vedi che ci sono dei segni: colpi, percosse, le arcate paretali livide, deformate, violacee. E’ stato colpito? E’ stato picchiato? Pare difficile negarlo. Ma se ci fosse una spiegazione ufficiale, tutto almeno sarebbe più comprensibile. Ebbene, non c’è. I comunicati ufficiali dicono: “arresto cardiaco”. Quando si muore c’è sempre un arresto cardiaco: senonché, quel corpo ci racconta un’altra storia, ci pone delle domande. Una è quella che Silvia ha porto ai carabinieri: “Come è possibile?”. La risposta sembra tratta dal copione di un film di serie B: “Le camere di sicurezza non sono alberghi a cinque stelle”. E le contusioni agli occhi? "Aveva dormito poco".
Però ci sono dei fatti. Alla famiglia è stato impedito di vedere il cadavere. Al legale della famiglia Cucchi non è stata concessa la possibilità di assistere all’autopsia. Le foto sono arrivate alla famiglia solo dall’agenzia di pompe funebri. Le interrogazioni parlamentari, ad esempio quella dell’onorevole Giachetti, sono piovute sui banchi di Montecitorio. Nemmeno il ministro Alfano ha fornito una versione coerente, e persino il ministro Maroni ha criticato la scelta di tenere lontana la famiglia. Luigi Manconi – che da anni con la sua associazione “A buon diritto” si occupa di giustizia e di carcere – ha spiegato insieme alla madre di Stefano che “i segni della violenza sono innegabili”. E’ vero.
Guardiamo questa foto e ci chiediamo se debba essere pubblicata e perché. Lo spiega in un editoriale Vitantonio Lopez, ma poche righe non possono raccontare quanto sia stato acceso il dibattito tra noi. Ne discutiamo molto in redazione, tutti quanti. Sappiamo che molti saranno turbati. Siamo turbati anche noi. Alla fine abbiamo deciso che dovesse essere pubblicata per tanti motivi: in primo luogo perché siamo convinti che i lettori non siano dei bambini sprovveduti: se le abbiamo viste noi (e abbiamo pensato delle cose), devono poterle vedere pure loro (e pensare delle cose). E poi un motivo ancora più semplice: quelle foto sono una domanda crudele, non solo per i Carabinieri o per ministri, ma per tutti noi. Se una madre decide di mostrare suo figlio ridotto a uno scheletro, martoriato, è perché e quelle domande devono avere una risposta. Solo così quella marionetta scomposta potrà ritornare ad essere il corpo di un ragazzo.
Luca Telese
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