La società che conta nella visione di un artista surreale russo e di uno dei commentatori politici più puntuali della tv italiana. Il risultato? Il mix corrosivo che vedete qui …
di LUCA TELESE per Maxim
Dunque, le cose stanno così: ti chiamano i ragazzacci di Maxim e ti dicono, senza troppi preliminari. Ti mandiamo i quadri via mail, ci scrivi un articolo? I quadri li ha fatti un tipo che risponde al nome di Rinat Shingareev: pare che sia un giovane artista russo, e poco o nulla di più si sa sul suo conto, se non altro perché tutto quel che c’è su di lui è in cirillico. Per quel che ne sappiamo Rinat potrebbe essere anche un artista di Gallarate che si finge russo, ma poco importa: sono i suoi quadri che contano, non il suo pedigree, e i ragazzacci di Maxim hanno regole di ingaggio che nemmeno le spie di Le Carrè, e ritmi di esecuzione che nemmeno von Karajan. Saresti quasi tentato di declinare l’invito, sennonché, queste immaginette colorate e vivivide si sono già accomodate sul tuo desktop, hanno già fatto il giro degli ospiti della tua casa di vacanze, hanno suscitato commenti tra gli ospiti, si sono già tramutate in icone pop. Allora pensi che quei quadri, e le sollecitazioni dell’ottimo Gabriele per produrre qualche migliaio di battute non prive di senso, siano una sfida che si può raccogliere e torni alle pennellate di Shingareev. Per motivi che sarebbe interessante indagare, la scelta che è giunta fino a noi comprende un sovrano, un presidente degli Stati Uniti il nuovo zar di tutte le russie, e Lapo Elkann. Il che vuol dire che o il misterioso Shingareev è amico di Lapo, o è un suo beneficiato, oppure il più spericolato degli agnellini – tra stravizi, colpi di genio, momenti di generosità e tante follie – è riuscito a lasciare un segno tale da oscurare il sorriso di Silivio Berlusconi. Se non altro per motivi generazionali, quindi, la cosa mi soddisfa. Ma quando passo al quadro mi rendo conto che questo Lapo è meno sregolato di come lo conosco nella realtà: è fasciato da quei ridicoli occhiali che produce lui (costano come un motorino e se li possono permettere solo lui e Jeff Goldblum, il protagonista de La Mosca) ha un cappello stile Borsalino rosa che lo fa assomigliare agli Agnelli seri, quelli della generazione di suo nonno, quelli che al contrario di lui godevano di ottima immagine pubblica, ma avevano famiglie disastrate e immani tragedie alle spalle. Ecco, Shingareev, ci ha regalato la sua prima fiaba, la prima falsificazione d’artista: contamina Gianni con Lapo, immagina un gioco di unghie mangiate come un momento sbarazzino in un contesto serioso, ricostruisce in vitro una noncuranza che il vero Lapo non ha, crea un frammento agiografia con fare sbarazzino. Così decido di passare a George W. Bush. L’uomo che nessuno è riuscito a raccontare meglio di Oliver Stone, nel suo meraviglioso W. George W. È il figlio malriuscito che sorpassa il fratello predestinato, la pecora nera che vuole passare alla storia, e oscurare il ricordo dell’irraggiungibile padre. Perché il nostro Shingareev gli ha messo a fianco un coniglietto? Perché lo ha già pensionato, forse. Oppure perché gli ha voluto togliere la maschera di potente della terra. O forse perché ha voluto raccontarci il suo alter ego celato, il suo eterno infantilismo di bimbo malcresciuto con la passione per le guerre facili (che poi non lo sono). Nella conferenza stampa più importante della sua carriera un giornalista chiese a W. Per cosa pensava di passare alla storia. A Bush Jr. non venne in mente nulla: e così passa alla storia come una foto sfuocata o come un coniglietto mancato. Ecco, ancora una volta, il pennello del nostro misterioso russo dei Navigli addolcisce la sentenza, trasfigura l’idiozia in fanciullismo, trasporta il presidente americano più contestato del secolo in una Neverland in cui potrebbe trovare come compagno di giochi Michael Jackson. Difficile dire dove finisca il riguardo, e dove inizi la beffa. Bisogna dunque passare ad Obama, e alle due tele che provano a raccontarlo: una in rosso e una in blu, come avrebbe potuto fare un qualunque van Gogh. Questo Obama rosso esprime davvero potenza: è l’Obama delle convention in cui arringa i democratici come un predicatore e come un rapper, è l’Obama a cui leggi in bocca la sua promessa messianica, il suo yes we can, e a cui Shingareev appoggia sulle spalle un cosmonauta da sbarco sulla luna. Sì, qui l’immagine cede il passo al mito. Qui il ritratto diventa icona pop. Come per la quattro Marylin policrome di Andy Warhol che sono sicuramente più vicine alla realtà di Marylin di quanto non lo sia la vera Marylin, le foto di Norma Jane, quando aveva i capelli neri. Come una finzione che reinventa la realtà, e quindi la racconta meglio. L’Obama blue è molto diverso, è un gioco surreale, un girasole eco-chic, ma senza quel girasole Marchionne non sarebbe arrivato alla Chrysler. Il principe Carlo invece sembra diventato il cappellaio matto di Alice nel paese delle meraviglie, Vladimir Putin assomiglia terribilmente alla controfigura di Daniel Craig, un James Bond dei poveri. Un ritratto deve raccontare. Un’icona pop deve falsificare e promuovere. Il Manzoni dei medaglioni risorgimentali era più finto di questi ritratti, Petrarca di suo sembrava un maniaco sessuale, Dante, fuori dall’iconografia che ce lo porta sui banchi di scuola, era molto più Kirk Douglas che un padre della patria, e aveva una mascagna terrificante. Per questo godetevi le falsificazioni di Shingareev: perché nel regno delle immagini, e nel tempo delle icone pop, una buona menzogna è l’unico modo per passare alla storia.
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