Luca Telese è un giovane giornalista. Giovane, perché in Italia, in ambito professionale si è tali fino ai 45-50 anni. E siccome Telese ha 37 anni, per il nostro Paese è un giornalista quasi in fasce. Ma nel suo lavoro ha vissuto molto e intensamente. Dichiaratamente di sinistra (di padre diessino convinto e di madre femminista con grandi simpatie per Rifondazione Comunista, ha meditato a lungo prima di presentarsi qualche anno fa al Plaza, accettando non solo un invito a pranzo da parte di Maurizio Belpietro, ma anche un posto di lavoro a Il Giornale) ha scritto per Il Messaggero, Il Foglio, Sette, il Corriere della Sera. Oggi scrive anche su Panorama e conduce su La 7 “Tetris”, un format di approfondimento politico molto particolare che i critici hanno lodato definendolo irriverente e corrosivo. Come ha raccontato lo stesso Telese, tra un aneddoto e una rivelazione ad effetto.
Come è nata la struttura di “Tetris”, che è indubbiamente un programma diverso da quelli di approfondimento politico a cui siamo abituati…
Apparentemente la struttura di “Tetris” è semplice; in realtà non è così, tanto che per realizzarlo ci siamo basati su un doppio teorema. Il primo: lo spettacolo si è impadronito della politica e viceversa. Oggi le rockstar parlano di politica e i politici si prestano a conversazioni non impegnate, perché è meglio fare figuracce piuttosto che passare inosservati. Il secondo: fare un tipo di trasmissione “equiferoce” nei riguardi dei politici piuttosto che essere “leccaculisti bilaterali” alla Floris o alla Vespa, tanto per intenderci.
Mi sembra di capire che salvi Enrico Mentana da questa categoria…
Sì, perché lo inserisco in un’altra: il suo è infatti un giornalismo splatter, fatto di “cognismo” e delitti, tette e vallette.
Tornando a “Tetris”, qual è il segreto di questa trasmissione amata dai critici?
I politici quando vengono in trasmissione, non sanno ciò che succederà. Non volevamo realizzare un programma nel quale fossero proposte le domande prima di andare in onda. Se i politici accettano, rischiano. Abbiamo deciso di affidare a Mike Bongiorno la rubrica della domande perché, se le facessi io o qualche altro giornalista, gli interlocutori riuscirebbero a svincolare. Ma con Mike è impossibile. Lui è quello delle buste: la uno, la due o la tre e non si può cercare una via di mezzo facile. Lui è più credibile di Telese, Floris e Vespa. Senza contare che, a differenza delle altre trasmissioni di “serie A” o dei telegiornali, noi attingiamo a tutti quei materiali considerati inconsueti per la televisione, come per esempio YouTube. Il filmato trasmesso su Elisabetta Tulliani (la nuova compagna del segretario di An, Gianfranco Fini, ndr) è materiale prezioso per la nostra trasmissione che gli altri invece disdegnano. Se a “Porta a Porta” usano il plastico di Cogne, noi proponiamo quello della strage della stazione ferroviaria di Bologna invitando alcuni esperti, ma anonimi. Ecco, un altro elemento che ci distingue dalle altre trasmissioni: siamo riusciti a conquistare il 6% di share parlando con Mario, il meccanico di Berlinguer. Ed è così che intendiamo fare questo programma, con tanti signori Mario e non con i soliti opinionisti che passano da una trasmissione all’altra. Senza contare che ci affidiamo al verosimile che da noi prende il sopravvento sul reale. Per esempio, abbiamo realizzato un servizio con una finta “Iena” e la gente accorreva per farsi fotografare con l’inviato pensando che fosse uno dei protagonisti della trasmissione di Italia 1.
Mi racconti come è andata la colletta che i tuoi colleghi fecero al Messaggero per farti rimanere in stage tre mesi?
In realtà la questione non è proprio in questi termini. Avevo vinto un concorso appena diplomato che metteva in palio uno stage di tre mesi a Il Messaggero. Fui fortunato perché mi ritrovai a lavorare con Paolo Zaccagnini e con Rita Sala. Quando lo stage terminò, i miei colleghi mi chiesero di restare, “Tanto qui ci rimarresti anche gratis”, mi dicevano. Continuai quindi a lavorare. Quando il direttore Mario Pendinelli si accorse che, mentre gli altri stagisti avevano smesso di venire in redazione, io continuavo a esserci, mi convocò. I miei colleghi mi prepararono al grande passo dell’assunzione: c’era chi mi disse di leggere alcuni libri di storia perché Pendinelli ne era appassionato, altri mi orientarono su argomenti diversi. Studiai come un matto e quando arrivò il giorno dell’incontro, Pendinelli mi strinse la mano, mi ringraziò e mi salutò. Questo è ciò che accadde e continua ad accadere a chi non ha parenti nel mondo del giornalismo.
Com’è possibile che un giornalista di sinistra come te scriva su il Giornale?
All’inizio me lo sono chiesto anche io. Quando Belpietro anni fa mi contattò, mi invitò a pranzo al Plaza. Io meditai molto prima di accettare e comunque andai all’incontro convinto che non avrei aderito al alcuna proposta. Quando ci trovammo faccia a faccia, mi ricredetti su Belpietro, perché è un uomo serio e simpatico. L’unico direttore, fino a oggi, che mi ha dato più di quel che mi aveva promesso. Quando mi chiese se volevo lavorare a il Giornale, gli risposi :“Ma io sono comunista”. La sua risposta fu: “Meglio così”.
Hai mai pensato di essere la classica “foglia di fico”?
La destra editoriale è più meritocratica della sinistra. A la Repubblica ti fanno l’esame del sangue quaranta volte e non per accertarsi che tu non sia di destra, che va da sé, quanto piuttosto per capire quanto sei di sinistra. Il Giornale può avere un debole per Berlusconi ma, perlomeno, è mostrato con trasparenza. Ed è il primo quotidiano in cui un giornalista se n’è andato perché pensava che si parlasse troppo poco di Berlusconi.
In che senso?
Nel senso che Marco Ventura, un mio ex collega, qualche anno fa seguiva il Cavaliere da un punto di vista giornalistico. All’inizio non sembrava entusiasta, ma dopo un pranzo con lui iniziò a incensarlo. Proponeva pezzi a raffica. Il direttore tendeva a contenere questa sua esuberanza. Una volta si seccò e gli disse che doveva darsi una “calmata”. Ventura entrò nello stanzone della redazione romana gridando: “E’ pazzesco: nel giornale di Paolo Berlusconi vengo censurato sul Cavaliere!”. Tutti risero pensando a una battuta. Il giorno dopo Ventura ci lasciò di stucco con un suo annuncio: “Non posso continuare a lavorare seriamente: mi dimetto!” . E’ una persona onesta, ma era letteralmente sedotto. Il giorno dopo – con un terzo colpo di scena che chiudeva degnamente la storia – ci disse che andava a Palazzo Chigi. Quello che è successo a lui, accade con molti “berlusconologi”, anche nei giornali di sinistra.
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