Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

La conventio ad (auto)escludendum

Mastella e Mussi annunciano le dimissioni. Di Pietro si autosospende.

 

L’ultimo a minacciare le dimissioni con piglio barricadiero ed animo offeso è stato Clemente Mastella che ha preso carta e penna e ha scritto a Romano Prodi: «Se Di Pietro non la smette di insultarmi sull’indulto, mi dimetto». La cosa meravigliosa è che anche Antonio Di Pietro, se si sta a sentire le sue dichiarazioni, ora, è fuori dal governo: «Mi sono autosospeso». E così, l’ultima invenzione nell’Italia dell’Unione è una nuova parola d’ordine epocale, il passaggio dalla conventio ad escludendum (quella che prescriveva la non partecipazione di un partito alle maggioranze di governo) alla convention ad (auto)escludendum (ovvero la minaccia di abbandono dei ministri che pestano i piedi per terra perché si sentono insoddisfatti). E in questo passaggio dall’immensamente grande all’immensamente piccolo c’è anche segno dei tempi, un giornalista prestigioso come Alberto Ronchey inventò il fattore K (nel senso del comunismo) per spiegare l’Italia degli anni ’70, per spiegare quella di oggi basta il fattore Jannacci (Enzo, nel senso del no-tu-no, il lamento di chi vorrebbe sottrarre se stesso, se c’è l’altro che non gli piace). Per rendersi conto che non si tratta di una provocazione basta scorrere l’incredibile repertorio di minacce, ventilate dai ministri in questi giorni. Proprio ieri Fabio Mussi, ministro dell’Università, minacciava che se non avesse ottenuto i finanziamenti previsti sarebbe ora che «si cercassero un altro ministro». Mentre, alla sua maniera, Paolo Ferrero, ministro del Welfare, annunciava baldanzoso: «Sono pronto a scioperare contro i tagli alla spesa sociale annunciati da Padoa-Schioppa». Che ovviamente è Tommaso Padoa-Schioppa, ovvero un altro ministro. E se continua così, qualcuno dovrà pure andare dal ministro Alessandro Bianchi, l’indipendente con l’ermellino vicino al Pdci, l’uomo che dopo nemmeno 24 ore dalla nomina già annunciava: «Se vogliono fare il ponte sullo Stretto, io mi dimetto». Dice Paolo Bonaiuti, portavoce di Silvio Berlusconi, osservando il fenomeno: «Questi, come il coro dell’Aida, promettono promettono, ma non lasciano mai la scena». E certo, qualcosa di vero c’è, se è vero che gli esegeti mastelliani frugano negli archivi per cercare un’altra frase memorabile come «sto meditando le dimissioni».  Ma sicuramente c’è qualcosa che non va, se nel tempo dell’Unione si ribalta lo slogan della Prima Repubblica, hic manebimus optime, che era il vero motto del governismo democristiano prima e socialista poi: la vera prova di forza era il durare e non il minacciare, il potere, come ci spiegava Giulio Andreotti, logorava chi non l’aveva e rafforzava chi lo gestiva. Adesso lo stile di governo si è fatto epilettico, contrattualista, anche le maggioranze sono sempre meno salde, si teme il modello di Paolo Cacciari, il deputato del Prc che non volendo votare contro il suo partito, ma non potendo nemmeno votare a favore, ha scelto di dimettersi. In tempi di pensiero debole, sembra che sia una prova di forza disperarsi, protestare e sottrarsi, terrificati dall’esperienza dell’opposizione gli uomini del centrosinistra non si sono accorti che in realtà l’hanno trapiantata a Palazzo Chigi. Così, il ministro di lotta e di protesta non si rende conto che la conventio ad (auto)escludendum è ormai così inflazionata che raramente qualifica chi la minaccia, mentre sempre più spesso squalifica il governo che la subisce.

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