Linkiesta

23 Giugno 2014
Pompei, lo sciopero selvaggio e il “petrolio d’Italia”

Dunque la notizia era questa: a Pompei erano state convocate, nel pieno della stagione turistica, non una ma ben cinque assemblee sindacali consecutive, una al giorno, tutte nel pieno della mattinata, tutte animate da un chiaro intento ostruzionistico, e infatti i turisti sono restati fuori dai cancelli. La protesta di Cisi e Uil ha qualcosa di inedito, se è vero che Raffaele Bonanni annuncia di voler commissariare il suo stesso sindacato. È di questa mattina l’accordo che pare abbia scongiurato il blocco. Sarebbe stato un errore clamoroso.

Chiudere un sito archeologico di importanza mondiale (e due milioni e mezzo di visitatori l’anno) con uno stratagemma non può essere scambiato con l’esercizio di un diritto, lo si può fare per un giorno, non per una settimana. È come bloccare un servizio pubblico, come fare una serrata in un pronto soccorso. Anche perché, se il problema è la definizione dei turni e degli straordinari, la risposta delle cinque giornate era chiaramente sproporzionata. Se il problema era che mancavano le forze per gestire 44 ettari non si poteva bloccare tutto quando finalmente arrivano i rinforzi. Ecco perché questa vicenda così complessa merita di essere sviscerata nel dettaglio.

Ricapitolando: dopo gli allarmi, i crolli, i furti, le colate di liquame a cielo aperto a Pompei è esplosa una protesta autolesionistica e quasi suicida. Il lato grottesco della questione è che tutto questo è accaduto proprio quando i soldi e l’inserimento del nuovo organico erano già stati deliberati. Accadeva dopo, cioè, la sottoscrizione di un piano che da oggi al 2015 assicurerà nuovo personale al sito vesuviano, retribuito attraverso il rafforzamento del tanto discusso “capacity building” (con uno stanziamento di ben tre milioni di euro) e dopo il varo del piano per la fruizione (che può contare su 7 milioni) e del Grande progetto da 105 milioni cofinanziato dall’Unione europea. Con il primo arriveranno a Pompei 23 persone tra amministrativi (11), addetti e operatori dell’ufficio contenzioso (6), tecnici informatici (3), redattori esperti di pubblicazioni web (2) e un responsabile di progetto.

Il lato grottesco della questione è che tutto questo accade quando i soldi e l’inserimento del nuovo organico sono già deliberati

Con il piano della fruizione, invece, saranno reclutati trenta operatori per l’assistenza al pubblico e la vigilanza che avranno il compito di tenere stabilmente aperte le Terme Suburbane, la Domus dei Gladiatori (quella crollata nel novembre del 2010 e oggi ancora in macerie), la Casa dei Quattro Stili, il Termopolio di Vetuzio Placido, la Casa del Larario di Achille, la Casa della Caccia Antica, la Casa dei Cei, la Casa dei Cornelii, la Casa dell’Ara Massima e la Casa di Apollo, sotto la guida di un responsabile progetto e un supervisor. Arriveranno poi tre addetti alla manutenzione e sei vigilanti anche in questo caso agli ordini di un responsabile di progetto e di un supervisor.

Nel decreto legge è arrivata anche una pioggia di deroghe

Certo, nel decreto legge è arrivata anche una pioggia di deroghe, secondo un copione consolidato per il nostro sistema degli appalti. Siccome in passato si è perso molto tempo senza ottenere risultati e ora bisogna correre, ecco spuntare le misure straordinarie. Il meccanismo per accelerare i lavori è l’innalzamento della soglia al di sotto della quale si può ricorrere alla cosiddetta procedura negoziata, quella che assomiglia di più alla fatidica trattativa privata. Più o meno ciò che è stato già fatto con il controverso commissariamento, sfociato fra l’altro in una inchiesta sui lavori di restauro del Teatro Grande (con l’incredibile impiego di cemento e mattoni). L’Inchiesta ha portato, solo pochi giorni fa, al rinvio a giudizio della titolare della ditta che ha eseguito i lavori, Annamaria Caccavo, nonché del commissario Marcello Fiori. Però, intanto, anche Grande Teatro che ospitó i Pink Floyd viene riaperto, proprio in questo giorni.

Adesso Il limite di appaltabilità è stato portato dal “Decreto cultura» (così è stato battezzato), a 3,5 milioni di euro. Risultato: secondo una stima che hanno fatto gli esperti dell’associazione costruttori, il 91 per cento delle opere infrastrutturali, per un importo pari al 75 per cento del totale, verrà appaltato al di fuori degli ordinari meccanismi concorrenziali. Sarà questo il caso dei lavori di restauro della Casa di Giulia Felice (1.050.071 euro), della Casa di Sirico (1.822.990 euro), della Casa del Marinaio (1.589.912 euro) e della Casa dei Dioscuri (1.769.002 euro). Per non parlare della quasi totalità delle opere di messa in sicurezza: ma questo è il prezzo che in Italia dobbiamo pagare per l’emergenza.

Così il copione si ripete: fra furti di affreschi (è accaduto tre mesi fa nella Casa di Nettuno) e di mosaici («volevo un ricordo», si è giustificato davanti ai carabinieri il turista dell’est Europa fermato dalle forze dell’ordine con i reperti), tra cani randagi e liquami che escono dai punti di ristoro (la vasca di contenimento dell’Autogrill ha capacità ridotta e non si possono scavare reti fognarie), Pompei sembra sempre sull’orlo del tracollo, sempre in crisi, sempre inscritta – come un simbolo – nel paradigma dell’irreformabilità italiana. Ma siccome questa volta alla guida del sito c’è un nuovo soprintendente, un archeologo, una persona competente e perbene, forse possiamo coltivare una labile, ma non ingiustificata speranza che questa sia stata l’ultima pagina del passato, e non la prima del futuro. Se la cultura deve essere “il petrolio d’Italia” (come disse Walter Veltroni, da ministro della cultura), uno dei pozzi più importanti non può che essere a Pompei: occorre che i vigilanti degli scavi acquistino la consapevolezza di essere i fortunati gestori di un giacimento, e non i malinconici, burocratici liquidatori di una storia di degrado.

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