La Verità

17 Settembre 2019
Renzi si fa un partito per le poltrone.

L’ex Rottamatore anticipa la scissione e crea propri gruppi parlamentari per partecipare alle nomine. Miolti fra i fedelissimi, a partire da Lotti, non sono convinti. Lui rischia l’isolamento e prova a forzare i tempi.

Una precipitazione improvvisa e una grande operazione di teatro (quelle in cui Matteo Renzi è maestro) per provare a uscire dall’angolo. Ieri, in maniera informale, ma con un crescendo rossiniano, gli uomini dell’ex premier riportavano questo tam tam: «Domani (oggi per chi legge ndr) Matteo annuncia lo strappo». Una intervista a Repubblica che i lettori troveranno stamattina, e una ospitata da Bruno Vespa che gli spettatori potranno vedere questa stasera.

Due uscite dosate ad arte – una diretta al popolo della sinistra, l’altra al pubblico più moderato – per annunciare la scissione. E poi una Renzis’ list, tanto minuziosa quanto impegnativa (per i parlamentari che vi sono citati), che serve a mettere i tanti incerti di queste ore – soprattutto sulla tempistica – davanti al fatto compiuto.

Una mossa per bruciare i ponti dietro le loro spalle, e rendergli più difficile restare nel Pd: al Senato cinque senatori destinati ad andare nel gruppo Misto (non potrebbe costituire gruppi autonomi, per via del nuovo regolamento, nemmeno se fossero in 10. A Montecitorio i renziani lavorano per arrivare a quota 20, e la prima notizia è questa: per raggiungere l’agognata soglia serviranno anche due transfughi di Forza Italia, pronti ad andare con gli ex piddini, usando il Leopoldismo come traghetto trasformistico per entrare nell’area di centrodestra.

I nomi certi sono quelli dei fedelissimi: da Roberto Giachetti (che ha anticipato oggi l’addio) al gruppo dirigente che si è cementato in questi mesi: Luciano Nobili, Anna Ascani, Michele Anzaldi, Nicola Care, Gianfranco Librandi. E poi i deputati vicini a Maria Elena Boschi. Tra questi Marco Di Maio e Mattia Mer. Pronti a lasciare il Pd sono anche due capigruppo di commissione, Luigi Marattin e Silvia Fregolent. Tra i turborenziani ci sono anche Ivan Scalfarotto, Ettore Rosato, Gennaro Migliore, Lucia Annibali e Mauro Del Barba.

Ma è una bella fatica. I numeri sono inferiori alle attese rispetto alla pattuglia «di quaranta fedelissimi» che solo ad agosto – tanto per dire – venivano accreditati in quota Renzi come «determinanti» per la nascita del governo giallorosso. Per uno che 14 mesi fa aveva l’Italia in mano, a dire il vero sembra un po’ poco. Ma sorprende sia il numero delle defezioni, sia lo sconcerto della base.

Un esempio per tutti. La settimana scorsa, alla festa nazionale dell’Unità di Ravenna discutevo con Palmiro, prototipo perfetto del militante postcomunista e ammiratore sfegatato di Renzi. Di fronte alla mia domanda insistente, «lo seguiresti’?», il sessantenne Palmiro, interrogato davanti ai compagni della «Friggitoria» che lo ascoltavano attenti, sbuffava sorridendo: «Sei un provocatore. Io non rispondo a questa domanda perchè so che Matteo non uscirà».

Sublime atto di fiducia nel leader, che tuttavia è la fotografia di un disagio reale di molti che nel popolo della sinistra in questi anni hanno seguito l’uomo di Rignano senza se e senza ma. Per questa gente la scissione è il tabù insuperabile. E, in questo momento, lo è anche per i quadri di peso, impegnati nella battaglia delle liste per le regionali, che sono lo snodo del potere reale in una grande macchina burocratica.

Una cosa è raccogliere preferenze nell’invaso grande del Pd, (una cosa in cui i renziani – come hanno dimostrato le europee – sono maestri) altro è andarsi a cercare voti fuori di casa.

Ma la farà davvero, alla fine, la scissione? «Trattandosi di Matteo», ti dicono le stesse persone vicinissime a lui che informalmente ti comunicano questa notizia per certa, «tutto e ancora possibile». Il motivo per cui molti sono increduli, anche tra i renziani di stretta osservanza, è che il momento non potrebbe essere meno propizio. Il governo si è fatto, come Renzi voleva, i sottosegretari, apparentemente, sono quattro, i ministri addirittura tre. Qualsiasi annuncio politico doveva essere dato a ottobre, sotto i riflettori della Leopolda più importante, quella a cui Renzi lavora da mesi.

Tuttavia non tutto è andato secondo i piani. Ed è stata proprio la formazione del governo a far pensare a Renzi di anticipare tutto e cambiare i piani. Avrebbe voluto usare il palcoscenico della Leopolda per celebrare il rito di nascita, adesso, mi dice un dirigente che è con lui dall’inizio, «trasformerà la Leopolda in una prova di fede».

Andarci o non andarci, insomma, vorrà dire: o con lui o contro di lui, perchè tertium non datur, Matteo non ammette vie di mezzo. Ciò che ha fatto deflagrare la sfiducia del leader è stato il fatto che una parte della componente, quella che fa capo a Luca Lotti e Lorenzo Guerini, abbia trattato per conto suo posti e incarichi nel nuovo esecutivo. E che – sia il primo sia il secondo – gli abbiano detto a muso duro: «Noi non usciamo».

Aggiungete che Graziano Delrio è ormai organicamente con Zingaretti e che un altro fedelissimo (torno con lui dopo la stangata del referendum) come Matteo Richetti sia traslocato con l’odiato e ormai concorrente Carlo Calenda, e avrete la prima verità dissimulata nel polverone: la prima linea dello stato maggiore renziano è già fuori dai confini della Leopolda. Così il politico navigato, la giovane volpe di mille congressi, ha pensato che accelerare e mettere tutti spalle al muro sia il modo di fermare l`emorragia.

Ieri Dario Franceschini ha avuto una idea geniale e ha inviato a diversi parlamentari che vengono dalla Margherita un messaggio ironico e sibillino: un file su Whatsapp con il simbolo dell’Api. Il lettore più accorto ricorderà che si trattava della dimenticata alleanza per l’Italia, una scissione del Pd capitanata da Francesco Rutelli, partita per fare sfracelli e finita con percentuali da prefisso telefonico. Se finisse così – è il messaggio – siete ancora in tempo per restare con noi. E salvare la pelle.

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