La Verità

27 Agosto 2019
Zingaretti cede in cambio di un patto di non belligeranza alle regionali

Alla fine tutte le posizioni contrattuali e le schermaglie tattiche si dissolvono nella notte di domenica. Anche se «il patto impossibile» per alcune ore resta blindato. Il Pd di Nicola Zingaretti comunica per tutto il giorno il messaggio opposto, ma in realtà toglie il veto su Giuseppe Conte, e fa nascere il governo giallorosso con il Movimento 5 stelle.

Fino alla tarda mattinata si prova a tenere le carte coperte, per impedire che i fuochi di interdizione reciproca possano ancora terremotare gli equilibri precarissimi dei partiti. Ma alle 21 di ieri sera, con l’incontro a Palazzo Chigi, l`alleanza viene suggellata con un gesto che diventa – anche sul piano simbolico – irreversibile. E alle 21 c’è il primo vagito del nuovo patto politico «di svolta» con un incontro che si tiene tra gli stessi Zingaretti e Conte, Luigi Di Maio e Andrea Orlando a Palazzo Chigi.

Tutto si celebra con una punta di malizia, e una coda di veleno che viene riservata ai renziani in vista della «fase due», quella in cui si assegnano tutte le ultime poltrone ministeriali e le deleghe da sottosegretario: «Se davvero sono idealmente e disinteressatamente contenti di questa alleanza», dice uno dei dirigenti più vicino al segretario, «allora non c’è bisogno che uno di loro entri nel governo».

Qualora questa vendetta raffinata non dovesse attuarsi, i nomi che possono rappresentare l’area, accettati dai nuovi azionisti di maggioranza, potrebbe essere quelli di Roberto Giachetti, di Tommaso Nannicii1i o addirittura di Lorenzo Guerini. Tra gli zingarettiani doc di vecchio o nuovo conio salgono le quotazioni di Paola De Micheli, di Francesco Boccia, di un ex giovane veltroniano (oggi zingarettiano) come Roberto Morassut.

Eppure, a parte questi dettagli importanti e rivelatori sul clima e sugli umori, solo il tempo potrà sciogliere l’enigma: Zingaretti – spiegano ora al Nazareno – ha tenuto fermo per tre giorni il suo veto sull’ex premier perchè solo questa posizione gli ha consentito di contrattare dei rapporti di forza più favorevoli nel governo. Ma forse e anche vero come dicono i renziani, che fino all’ultimo il segretario accarezzava l`idea di uno show down che lo riportasse alla sua prima ipotesi: le elezioni anticipate come male minore per togliersi di mezzo la minoranza dal Senato bonificando i gruppi parlamentari dall’eresia (e ovviamente ridimensionando anche i grillini).

Brandendo questa clava – tuttavia – Zingaretti ha strappato una concessione politica che probabilmente avrà dei contraccolpi importanti. Un accordo che ora viene provvisoriamente (e prudentemente) definito «di desistenza» in vista delle elezioni regionali. Il punto tecnico è ancora da definire, il «come» non è ancora deciso -insomma – ma Movimento 5 stelle e Pd si sosterranno con una alleanza nelle regionali dell’Emilia Romagna. Obiettivo: sbarrare la strada alla possibile vittoria della Lega, che si appresta a candidare alla presidenza Lucia Borgonzoni. Non solo un nuovo contratto – come pensava il M5s – ma un patto di governo che preligura una alleanza.

A sospingere il vento a favore del governo, nelle ultime ore sono arrivati gli endorsement a favore di Conte da parte di Donald Tusk (presidente uscente del Consiglio europeo), del segretario della Cgil, Maurizio Landini, di importanti gerarchie vaticane, di intellettuali di diversa estrazione di Nichi Vendola e di Sinistra italiana. Un vero e proprio peana a favore dell’avvocato del popolo, accompagnato da segnali di simpatia della base, che ha sorpreso i vertici del Pd, e pesato non poco nella decisione finale.

Il Conte che si è seduto nel vertice di ieri ha spiegato a Zingaretti e Orlando di non essere animato da nessun interesse personale, ma ha anche fatto capire loro di poter esercitare un peso nelle scelte del Movimento, in cui l’ala anti giallorossa (vedi Gianluigi Paragone) e circoscritta ma non irrilevante.

Sta di fatto che adesso dentro il Pd tutti parlano di accordo di legislatura, di patto di legislatura. di ampio respiro. In Umbria – dove è già in campo una coalizione di liste – il Pd potrebbe addirittura ricorrere all’escamotage di non presentare una sua lista. E nel palazzo il «riequilibrio discontinuo» del governo di svolta porta ad un vicepremier unico del Pd, probabilmente Orlando.

In Europa ad un commissario che sia contemporaneamente donna e dem. Che potrebbe essere Roberta Pinotti, se non dovesse prendere la poltrona della Cultura. Mentre Gianni Cuperlo potrebbe diventare il nuovo ministro della Pubblica istruzione. Fra i pentastellati viene promosso il capogruppo Stefano Patuanelli, grande regista dell’intesa quando non ci credeva nessuno.

E torna nell’esecutivo Luigi Di Maio, che ha difeso fino all’ultimo il suo premier. Non c’e dubbio che (al netto delle dicerie) quelli che si intestano la vittoria siano Zingaretti, il quale alla fine riporta al governo un Pd che ne era uscito convinto di non tornarci più, quando Renzi diceva da Fabio Fazio: «Non possiamo formare un esecutivo perché siamo stati sconfitti», e ovviamente Giuseppe Conte, a cui riesce l’impresa rara di essere il premier di due governi diversi, con due maggioranze diverse. In passato era riuscito solo ad un signore che si chiamava Giulio Andreotti.

Doveva essere un finale di carriera da meteora, invece e il principio di una carriera da nuovo, felpato e ineffabile coniglio mannaro. L’altra conseguenza non irrilevante è la probabile fuoriuscita di Carlo Calenda dal Pd. Produrrà un effetto tempesta perfetta favorevole a Zingaretti, perché Calenda, che (al contrario di Renzi) non ha senatori a Palazzo Madama tra i suoi, andrà a occupare lo spazio al centro del Pd e a raccogliere gli scontenti dell’accordo, prosciugando un possibile spazio di crescita dell’ex premier.

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