Panorama

17 Luglio 2019
L’immigrazione? È l’unica industria della Libia. Intervista con Marco Minniti

Onorevole Minniti, mi spiega perché in queste ore è così preoccupato?
Perché abbiamo un problema drammatico. Non io, non la mia parte politica. Ma l’Italia nel suo complesso. Mi piacerebbe poter parlare di questo, oggi.

Onorevole Minniti, mi spiega perché in queste ore è così preoccupato?
Perché abbiamo un problema drammatico. Non io, non la mia parte politica. Ma l’Italia nel suo complesso. Mi piacerebbe poter parlare di questo, oggi.

Quale problema?
Il problema drammatico – se non fosse ancora chiaro – è la Libia. L’estate è lunga e gli eventi potrebbero precipitare in qualsiasi momento.

Intende dire la guerra civile tra il generale Haftar e il presidente Serraj o gli sbarchi?
Parlo di tutto quello che sta accadendo in queste ore drammatiche. E mi preoccupa ancora di più di quello che può accadere a breve.

Ha già una scenario in mente?
Sì, ed è una quadro molto semplice da tratteggiare.

Quale?
Se questo conflitto prosegue i due problemi che lei ricorda – la guerra civile e gli sbarchi – si incroceranno presto, diventando uno l’acceleratore dell’altro.

Con che risultato?
Se va avanti la guerra civile a bassa intensità, il rischio è di trovarsi presto in una grande emergenza umanitaria.

E se il livello di conflitto sale ulteriormente?
(Allarga le braccia). Questo rischio purtroppo diventa una certezza matematica.

Mi dipinga il quadro che più la preoccupa.
È semplice. In queste ore ci sono tra 70 e 90 mila sfollati solo da Tripoli. Nei giorni scorsi il centro di detenzione di Tagiura è stato colpito da un bombardamento. Tutto ciò rende evidente che agli sfollati potrebbero potenzialmente sommarsi persino gli altri 8 mila migranti trattenuti dal governo di Tripoli, di cui il presidente Serraj ha recentemente parlato.

Secondo lei se la miscela di potenziali profughi prende una dirczione, quale sarà?
Quella dell’Italia, ovviamente. Altre vie di fuga dal Paese sono impervie o meno probabili.

Quel discorso di Serraj è stato un ricatto del governo di Tripoli?
In che senso?

Una minaccia del tipo: o l’Italia mi sostiene nella guerra contro Haftar o vi scateno contro l’arma dell’esodo incontrollato?
Io credo che non sia un gioco, ne una minaccia, ma uno stato di necessità drammatico e reale, in cui il governo di Tripoli si trova in questi giorni. È un segnale di una situazione che può precipitare in qualsiasi momento.

Lei è critico sulla politica estera del governo Conte?
Sulla Libia si misura in maniera più evidente lo scacco che il governo italiano ha subito in questi mesi.

Lo dice perché pensa di aver ottenuto risultati migliori lei, quando era ministro del governo Gentiloni?
A essere sinceri, sì. Ma non è una competizione tra noi e loro. Avevamo dimostrato, credo, che la strutturale instabilità della Libia post-gheddafiana poteva essere perlomeno governata. Avevamo costruito degli equilibri ai limiti dell’impossibile. Che tuttavia tenevano.

E ora?
Parte di questo delicato lavoro diplomatico mi pare perduto.

Perché, cosa succede adesso?
Seguo con preoccupazione gli sviluppi. E vi spiego perché secondo me stiamo correndo un rischio molto, molto grande.

Incontro Marco Minniti nel suo ufficio di deputato. L’ex ministro parla gesticolando, con un occhio all’Aula, per capire quando deve votare, e con l’altro all’Africa. Minniti non vuole alzare il tono della polemica ma non nasconde la sua irritazione per la polemica sullo ius soli, sollevata da Matteo Renzi nei confronti di Gentiloni e di lui stesso. Ministro e premier sono stati tirati in ballo dall’ex sindaco di Firenze in una lettera a Repubblica senza che fossero nominati direttamente. Minniti, il ministro del giro di vite sulle Ong, non ha mai nascosto che considerava questa linea dura e il riconoscimento della cittadinanza, una come il completamento dell’altro: «Se c’era uno che voleva lo ius soli, quello sono io».

Quale sarebbe il capolavoro del rostro governo?
Aver ricostruito elementi di progetto politico in Libia quando la situazione del Paese era a pezzi dopo la guerra 2011. Aver attivato percorsi efficaci per «costituzionalizzare» il regime nato dopo la cacciata di Cheddafi.

Il suo giudizio sull’intervento dell’Europa e degli Stati Uniti è drastico.
Diciamo che, nei confronti della comunità intemazionale, la Libia ha molti crediti maturati a causa di quell’intervento militare: chi l’ha ideato non aveva la più pallida idea di ciò che sarebbe accaduto dopo.

Cioè?
Non si ponevano il problema di come costruire un futuro per il Paese.

Avrebbe preferito che nel 2011 il regime si salvasse?
Non ho nostalgia dei dittatori in generale, ne di Gheddafi, in particolare.

Lo conobbe?
Lo incontrai per la prima volta esattamente venti anni fa, in un caldo agosto del 1999 per parlare del suo rapporto con l’Italia e del superamento del suo isolamento internazionale. Ci vedemmo in piena notte, dall’una in poi.

Che ricordi ha?
Lui guardava sempre verso il cieto, mai l’interlocutore in faccia. Quasi a rappresentare fisicamente la sua idea di rapporto con il divino.

E che effetto faceva?
Una figura drammatica e carismatica insieme. Ma oggi non esiste alcun dubbio che quell’intervento militare ebbe esiti disastrosi.

Quale era il vostro obiettivo in Libia nel 2017?
Quando abbiamo iniziato il lavoro di ricostruzione dei rapporti tra noi e Serraj l’industria degli sbarchi era diventata l’unica impresa funzionante in Libia. Un’impresa dannata, ma l’unica funzionante.

Lo dice con spirito di paradosso?
No, è una semplice constatazione. Non si capisce il problema che abbiamo se non si sa che lo scafismo in Libia produce reddito e redistribuisce reddito. Con Gheddafi era uno strumento, improprio ma efficacissimo, di diplomazia intemazionale.

E dopo?
È diventato un mezzo di sostentamento, di autofinanziamento e infine di lucro.

Cosa avete fatto voi?
Abbiamo messo in campo un’iniziativa che partiva dal controllo dei confini. Uno stato che non controlla i suoi confini non esiste.

Il confine del mare?
Il confine più importante della Libia, in realtà, è quello sub-sahariano meridionale: viene considerato, giustamente, il primo confine dell’Europa.

Di tutto un continente?
È quella la prima porta a cui bussano i migranti che arrivano da tutta l’Africa. Proprio per questo dobbiamo considerarlo non come la porta d’ingresso della Libia, o dell’Italia, ma di tutta l’Europa.

Cosa vi proponevate allora?
Di stabilizzare il Paese. Aiutarlo a controllare i propri confini. Di spingerlo a costruire un rapporto con le strutture della comunità internazionale e delle Nazioni unite.

Per esempio?
Quel Paese non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1961. Anche perché mai, in passato, i suoi interlocutori le avevano chiesto di firmarla. Noi abbiamo iniziato a esercitare questa moral suasion.

Considera che si siano fatti davvero dei passi avanti su questo terreno?
Prima di noi le Nazioni unite erano costrette a occuparsi della Libia da Tunisi. Ora – grazie a questa pressione – operano laggiù. È stato creato un piccolo modello.

Ma funziona?
Quelli che hanno diritto alla protezione possono venire con i corridoi umanitari.

Oddio, non sono grandi numeri.
Però non esisteva nulla prima, e poi una via ha iniziato a esistere: le Nazioni Unite selezionavano sul territorio le persone da proporre per il corridoio costruito dall’Italia insieme alla Cei.

E poi?
Abbiamo creato le condizioni per i rimpatri volontari assistiti dalla Libia verso i Paesi di provenienza africani.

«Assistiti» nel senso che quelli che accettano di tornare indietro sono pagati.
Anche. E non mi scandalizza. Io considero sacrosanto incentivare questo controesodo con un piccolo budget per potersi rifare una vita.

Ma funzionava?
Eccome! Più di 25 mila in pochi mesi. Era un altro piccolo modello. Oggi è stato di fatto abbandonato.

Cosa è venuto meno?
L’equilibrio delicatissimo di quella instabilità governata. Il segreto era che ogni attore libico si sentiva protagonista, ma nessuno doveva sentirsi dominante.

Perché, oggi invece come sono?
Nessuno si sente abbastanza protagonista, ma entrambi vogliono dominare.

Il governo ha organizzato la conferenza di Palermo.
Non me ne parli: il clima di attesa spasmodica di Haftar che è stato creato in quella occasione è diventato una oggettiva destabilizzazione di Serraj.

Addirittura?
In questi anni ho imparato che qualsiasi cosa si pensi o si scriva in Italia, si riverbera in Libia con effetti persino amplificati.

Cioè?
Non conosco nessun Paese al mondo in cui – come laggiù – anche gli starnuti delle relazioni internazionali hanno una eco.

E ora?
Adesso comunque vadano a finire le cose, il clima non tornerà più come prima.

Cosa intende?
Per effetto della guerra in entrambi gli schieramenti è aumentato il peso delle forze più estreme. Spesso con l’ingresso sulla scena di soggetti, milizie o gruppi difficilmente gestibili.

Dietro Haftar ci sono i francesi.
Haftar ha un rapporto storico con la Francia e con l’Egitto, e in questo momento è sostenuto anche da Emirati Arabi e Arabia Saudita. E poi c’è il nuovo rapporto con gli Stati Uniti di Trump. Ma la cosa più singolare da rilevare è un’altra.

Quale?
Dopo l’offensiva di aprile di Haftar, proprio mentre gli Stati Uniti evacuavano il loro personale da Tripoli, Haftar volava a Mosca. In questo piccolo episodio la dice lunga su come sono cambiati gli equilibri nel mediterraneo centrale e del ruolo della Russia.

Quindi siamo dalla parte del più debole. Serraj rischia di cadere.
Abbiamo corso questo rischio. Ma le dico anche che in questo momento nessuno dei due contendenti ha la forza per prevalere militarmente sul campo di battaglia.

Perché?
Alla guerra civile libica si è aggiunto e sovrapposto il conflitto prodotto dalla divisione drammatica nel mondo sunnita. Per questo dalla parte di Serrai, alle sue spalle, in questo momento ci sono Turchia e Qatar.

Cos’altro ha pesato sullo scacchiere?
Il ruolo di Misurata. Una sorta di città Stato che io chiamo «la piccola Sparta». Lo schieramento di Misurata in questo momento è diventato il punto di tenuta d i Serraj.

Conosce Haftar?
Io ero in Africa a incontrare il generale nell’agosto 2017. Abbiamo parlato per diverse ore. Tre ore e mezza più un lungo pranzo.

Mi dia un ricordo.
Era previsto un breve incontro. Pensavo che a quel punto il pranzo fosse saltato e stavo per tornare in Italia. Prima di salutarci Haftar mi dice: «Stai andando via? E il pranzo?». Io dico: «Per me non è un problema”. E lui: «Per noi se non c’è il pranzo significa che l’incontro non è andato bene». Mi sono fermato. È un uomo determinato, diciamo.

Il suo ruolo da ministro fu decisivo nella cosiddetta «pace di Roma» propiziata da lei fra le tribù del deserto.
I Tebu, Suleiman e Tuareg sono la vera cerniera di controllo dei confini meridionali. Nessuno, come loro, presidia e conosce il deserto. Non ci sono tecnologie che possano pareggiare questa capacità.

E adesso?
Purtroppo le tribù si sono nuovamente divise per effetto del conflitto. Rischiamo di perdere la Libia anche per colpa di questa spaccatura.

Sul tavolo, infine, c’è il problema decisivo delle fonti energetiche.
In questi anni, non so come, diciamo, siamo riusciti a garantire l’approvvigionamento di petrolio e gas. L’Eni ha realizzato un miracolo diplomatico. Ma adesso il personale italiano della società è stato evacuato. La situazione è di nuovo critica.

Perché?
Il clima che si sta creando assomiglia molto alla prima parte dell’evoluzione della guerra civile siriana. Emergerà presto anche un problema di contrasto del terrorismo.

Perché?
In uno scenario come questo i cosiddetti foreign fighters possono trovare un rifugio sicuro in cui esercitarsi nel «gioco» che conoscono meglio: l’arte della guerra.

C’è questo rischio?
Non dimentichi che due anni fa governavano Sirte. È stato l’intervento di Misurata a batterli sul campo, da una prospettiva islamica ma non integralista. Questo dovrebbe far capire quanto è complessa la situazione in Africa settentrionale e Medio Oriente.

L’Italia o l’Europa potrebbero praticare una politica di «ingerenza umanitaria» in Libia?
(Sorriso). Io l’ho già praticata, questa politica, come lei sa, in Kosovo.

Perché sorride?
Perché una parte di quelli che nella ex Jugoslavia ci chiamavano «servi degli Stati Uniti» sono gli stessi che oggi invocano l’ingerenza umanitaria. Tuttavia c’è da calcolare il primo effetto che potrebbe produrre in Libia.

Quale?
Immediatamente tutti i diversi contendenti libici si unirebbero contro l’invasore straniero, che diventerebbe il comune nemico. Il rischio è questo. Uno scenario da incubo.

La comunità intemazionale è paralizzata.
Lo scacco delle Nazioni unite è evidente: per effetto dei veti non hanno nemmeno potuto varare una risoluzione di condanna per il bombardamento di Tajura.

Perché dietro i due contendenti si nascondono le potenze che lei ha ricordato?
Diciamo che questa è una guerra che si combatte con capacità tecnologiche in outsourcing. A partire dall’aviazione.

E perché dice che Serraj non cadrà?
Perché con la presa della città di Garian il governo si è rafforzato, anche sul piano strategico militare. E perché il peso di Misurata conta.

Il Pd è diviso in tré anche sulla Libia?
Non abbiamo partecipato al voto sulla risoluzione del governo. Abbiamo opinioni diverse, in alcuni casi, ma non ci siamo divisi in aula.

Lei crede ancora alla guardia costiera libica?
Era parte integrante di un sistema di ricerca e salvataggio in mare molto più grande. L’abbiamo addestrata noi insieme all’Unione europea. Ma mentre prima la guardia costiera si affiancava alle missioni Temis e Sophia, con il coordinamento della guardia costiera italiana, oggi è sola. È evidente che così non può più funzionare.

Salvini ha ridotto gli sbarchi?
Il dato degli sbarchi, al 31 maggio del 2018, quando ho finito il mio mandato era meno 78 per cento per gli arrivi dal Mediterraneo centrale e meno 85 per cento dalla Libia. Ed era anche diminuito il numero dei morti in mare.

Intende dire che non è un risultato prodotto dalle politiche di restrizione del governo gialloverde?
Ho solo ricordato i numeri e gli interventi che abbiamo messo in atto.

Quindi sta dicendo che è merito suo?
Non è questione di appuntarsi medaglie sul petto. Ma di capire cosa è accaduto, per evitare che torni il caos.

Cioè?
Oggi Sophia è finita: una missione navale senza navi è un controsenso. Quindi è ormai una scatola vuota. Far gravare tutto lo sforzo di contenimento sulle spalle della sola guardia costiera libica è un drammatico errore politico.

Approva il pugno duro di Salvini contro le Ong? Neanche lei fu tenero.
Io ero convinto che si dovessero coniugare umanità, rigore, libertà e sicurezza per governare i flussi. Oggi vedo che c’è molto rigore, ma si è persa l’umanità.

Lei non avrebbe chiuso i porti a Mediterranea e Sea Watch? Assolutamente no. Un Paese normale risolve la questione di 42 migranti in cinque minuti. Guardi i dati reali: con le Ong sono arrivati solo l’8 per cento del totale dei migranti approdato in Italia.

E gli altri?
Sono stato salvati tutti da Marina militare italiana e Guardia di finanza oppure sono arrivati direttamente con gli scafisti.

In che modo?
L’ultima via che è stata ideata sono i barchini che partono da una nave madre percorrendo l’ultimo tratto fino alle coste italiane.

Cosa intende dire?
Che Salvini ha creato una illusione mediatica efficace: quella che il problema siano le Ong, ma non è così.

No?
Questi numeri ci dicono che su 3.400 approdati meno di 300 migranti sono arrivati con le navi delle Ong.

Vuole dire che si tratta di una manipolazione?
Salvini mette in contrapposizione umanità e sicurezza per produrre consenso alla sua parte politica.

Perché si è arrabbiato per l’attacco di Renzi a lei e a Gentiloni sullo ius soli?
Abbiamo parlato di problemi così seri. Non areniamoci nella palude delle piccole polemiche personali. Sono della vecchia scuola. Per quanto mi sforzi non riesco ad appassionarmi al «fronte interno».

Però qualche lettore potrebbe chiedersi: come mai Minniti voleva una linea di rigore e anche lo ius soli?
Il primo dovere di una democrazia è governare i flussi migratori. Il secondo è integrare quelli che arrivano. Lo ius soli non è una legge sull’immigrazione, ma sull’integrazione. Proprio per questo non c’è nessuna contraddizione tra questi due momenti, anzi.

Ovvero?
Ne ero convinto prima, ne sono stato convinto dopo. Bisognava dare un segnale molto forte sul piano dei diritti. Lo ius soli, che era poi uno ius culturae, costituiva una risposta inclusiva per chi è già in Italia, per chi ci è cresciuto.

Dice Renzi che non lo avete voluto votare, e che è stato un errore.
(Sospiro). Lei vuole farmi fare polemica?

Io vorrei che lei rispondesse.
Personalmente in quegli anni mi occupavo di intelligence. Ma la finestra più importante per approvare quel provvedimento il governo l’ha avuta dopo il voto alla Camera nel dicembre del 2015.

Cioè quando governava Renzi e c’era la dichiarazione di Sinistra italiana di essere pronta a votare anche una fiducia.
Sembra proprio così.

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