Il Fatto Quotidiano

15 Gennaio 2010
Dylan Dog e l’accanimento terapeutico

Non è una presa di posizione di Emma Bonino. E neanche il grido terminale di Piergiorgio Welby: “Fatemi Morire”. E non è nemmeno la voce di Beppino Englaro a chiedere l’eutanasia. Questa volta, a riaprire il dibattito sullaccanimento terapeutico, è la presa di posizione di un intellettuale italiano libero e di grande successo. Di solito veste in camicia rossa e giacca nera, jeans e Clarks. E’ popolarissimo anche se non va mai in tv (preferisce l’edicola): il suo nome è Dylan Dog.
Male incurabile. Tutto accade nel numero di gennaio, appena approdato in edicola (il 280 della serie), intitolato: Mater morbi. La trama è presto detta: l’indagatore dell’incubo si ammala. A pagina 6 è in barella, issato su un’ambulanza. A pagina 8 (evidentemente in Inghilterra non c’è lista di attesa) si infila già nel tubo di una risonanza magnetica. Le cose vanno malissimo: tumore allo stomaco. A pagina 15 finisce in ospedale (da incubo, ovvio) con un medico che lo rassicura, a pagina 19 si risveglia con una orribile cicatrice. E’ stato appena operato e ricucito. La storia inizia qui, ed è un’altra anomalia rispetto al salutismo abituale degli altri eroi di carta: Dylan diventa sempre più emaciato e sofferente, pagina dopo pagina. E’ ridotto a uno scheletro: nessuno è in grado di diagnosticare la vera origine del male, i medici si accaniscono su di lui. Ora (a parte la sfida soprannaturale che conclude il calvario), la trama affronta in maniera esplicita il dilemma della cura (e quello della terapia). Il dottor Vonnegut (faccia poco rassicurante, alla Klaus Kinski) si accanisce sul paziente. Lo vuole tenere in vita a tutti i costi, anche quando le condizioni sono disperate. “Dobbiamo collegarlo a una macchina per farlo respirare”. Da quel momento in poi, tra il primario e il suo vice (il dottor Harker, che è su posizioni, diciamo così, “laiche”) inizia un duello. “La legge ci obbliga a fare tutto quello che è possibile per tenere in vita i pazienti”, esclama il dottor Vonnegut, e cita il giuramento di Ippocrate. Ma Harker ribatte con un altro passo del giuramento: “Dobbiamo portare sollievo alla sofferenza”. La storia intreccia reale a fantastico, finché le condizioni di Dylan diventano disperate: “Gli stiamo solo prolungando l’agonia quando invece potremmo farlo morire dignitosamente”, sostiene il dottor Harker. E a questo punto Vonnegut lo attacca: “Forse siete uno di quelli secondo cui quando una legge è ingiusta si può infrangerla?”. Risposta del dottore laico: “Credo che bisogna cambiarla”. Insomma, un dibattito “alto”, che potrebbe sorprendere, visto che il pubblico dei lettori di Dylan Dog conta moltissimi adulti, ma anche una fascia di giovanissimi tra i 10 e i 14 anni. Eppure uno dei segreti del successo dell’eroe bonelliano è proprio in questa capacità di saper cambiare il suo registro, di passare nel corso della stessa storia dall’horror, alla riflessione morale.
Precedenti civili. In un paese in cui il coraggio civile e le battaglie controcorrente sono merce rara, potrebbe stupire che ad affrontare il dilemma di coscienza sulla libertà di cura sia un grande fumetto popolare. Eppure chi conosce la filosofia della scuderia di Sergio Bonelli (il padre del fumetto di massa in Italia) e la genialità di Tiziano Sclavi (il padre di Dylan) sa che il nostro eroe non è nuovo a queste battaglie. In passato Dylan ha affrontato il tema della libertà di informazione (Caccia alle streghe, in cui duellava con un simil Giuliano Ferrara), quello del condizionamento di massa e dei rischi autoritari (Vampiri), della morale sessuale (è andato in bianco), ha preso posizione a favore dei disabili (nel commovente albo Johnny Freak) e persino contro la vivisezione (nell’albo intitolato Goblin). Dylan non si schiera politicamente, ma è un progressista convinto, sempre in prima fila, nelle battaglie sulle libertà personali e sui diritti civili. Mater morbi, disegnato in uno splendido bianco e nero da Massimo Carnevale, e sceneggiato da uno dei più talentuosi discepoli della bottega di Sclavi, Roberto Recchioni (uno che per storia personale conosce il calvario delle terapie) ha un triplo finale che non può essere rivelato. Si può anticipare che Dylan riesce a sedurre un affascinante spirito in guêpière (la “madre della malattia”, peraltro molto sexy) e anche a passare dall’encefalogramma piatto a una (provvisoria) resurrezione, che gli concede di esalare – tanto per chiarire da che parte sta – un feroce insulto contro il medico che ama l’accanimento terapeutico: “Mpf… ‘ndate al diavolo… mpf… maledetto… ‘stardo!”. Lettura consigliata per i leader del centrosinistra. E non solo.

Luca Telese

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Un commento »

  1. Ho già espresso a Roberto Recchioni, sceneggiatore del numero in oggetto, i miei complimenti… e il fatto che sia un amico di lunga data non c’entra nulla con la qualità della storia.
    Chi lo conosce sa già quanto gli sia costato scriverla, e quanto di personale ci sia nel lungo travaglio di Dylan nei corridoi di un ospedale.

    Vedergli riconosciuto il merito anche dalla “stampa seria” è un’ulteriore soddisfazione.

    Vai Robè, oggi puoi fare la ruota (del pavone), a pieno diritto! :)

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