Il Fatto Quotidiano

10 Gennaio 2010
Una scuola extraordinaria

Abito a Roma, in uno dei quartieri più multietnici d'Italia. Mio figlio Enrico ha tre anni e mezzo, e frequenta uno degli asili pubblici più multietnici d'Italia. Uno di quelli che secondo la Gelmini sarebbero un covo di malessere sociale ed etnico: qui le quote sono esattamente il contrario di quelle che vorrebbe il ministro, ma le cose vanno benissimo. Due terzi stranieri, un terzo italiani. Eppure, se in un qualsiasi giorno ti affacci in un corridoio trovi solo sorrisi, grida di felicità, lavoretti di cartapesta e cartelloni colorati.
Nessun luogo di bambagia protetta, nessun ghetto per ricchi: asilo pubblico, a solo pochi metri da piazza Vittorio, retta di 60 euro (solo perché c'è la mensa). Una squadra didattica da far paura – maestre, collaboratrici scolastiche, direttrice – a cui dovrebbero dare il Nobel per la pace. Bimbi di tutte le nazionalità: cinesi, sudamericani, indiani, cingalesi, polacchi… A quelli che dicono: “Ma così, come fanno i nostri figli ad imparare l'italiano ?”, vorrei solo dire di entrare un momento e di avvicinare l'orecchio alla porta di una classe. Parlano tutti italiano, tutti. Qualcuno si porta traccia di accenti diversi, ma molti parlano l'italiano meglio degli italiani, anche se hanno un cognome pieno di consonanti (il peso delle cadenze, direi senza polemiche, è inferiore a quello che si sente sui banchi del governo). L'unico indizio di diversità etnica lo trovi se ti metti a sbirciare le targhette dei nomi sotto gli attaccapanni: “Shannah, Sophie, Oliver… Ogni attaccapanni ha un nome, e anche un disegnino. Il rito di appello è così: le maestre mettono tutte le schede con i nomi dei bambini sul tavolo, e anche i bimbi che non sanno leggere trovano i loro e vedono quello degli altri. Poi lo vanno infilare su una parete dove c'è una bacheca piena di tasche trasparenti. Enrico ha una chiocciola, ed è molto contento.
Quando sento dire che i genitori fuggono dalle scuole con gli stranieri penso a questa estate. C'era gente che tramava di restare fuori. Prima ancora di iniziare le lezioni la direttrice mi ha telefonato: “Facciamo una festa di benvenuto”. E io: “Prima ancora di iniziare?”. E lei, ridendo: “Sa, per integrare i bambini bastano tre giorni. Per i genitori non bastano tre mesi”. Geniale. Quando sento parlare di integrazione, invece, mi viene in mente un’immagine di questo autunno. Riunione dei genitori. La direttrice ci informa: “Serve un rappresentante dei genitori”. Molti dei genitori italiani, fra cui io, si guardavano preoccupati. Nessuno si è fatto avanti. Allora ha parlato il padre di un bimbo rumeno: “Mi candido io! Mi chiamo Silvio, un nome perfetto per la politica, non trovate”. Inutile dire che Silvio è stato eletto all'unanimità. E la paura etnica? Mio figlio ha visto Biancaneve ed è rimasto terrorizzato dalla strega Malefica, quella con il velo sotto la gola. Due giorni dopo ha visto la madre di un compagno con il velo e si è spaventato: “In classe è venuta Malefica!”. Gli abbiamo spiegato: “No, Enrico, la signora ha il velo perché è musulmana”. Non sembrava convinto, ma non ne ha parlato più per due mesi. Poi, la settimana scorsa ha rivisto il dvd di Biancaneve: “Papà, Malefica è musulmana?”. Capirà. Spesso i bimbi stranieri non vengono alle feste. Spesso non vengono perché i genitori pensano che il regalo sia obbligatorio. Ma la scuola unisce tutti, ed è diversa in tutta Italia. Si possono decidere a Roma delle quote per risolvere tutti i problemi ? Non lo hanno fatto in nessun paese del mondo.
Allora chiedo. Cosa significano le quote per legge? Provo ad applicarlo alla classe di Enrico. Che dieci bambini se ne dovrebbero andare via. E perché? E, soprattutto, dove? E poi, queste quote, come vanno contate. Devono comprendere i bambini che sono stranieri anche se nati in Italia? Solo quelli nati fuori? Solo quelli che sono stranieri e non parlano italiano? E i bimbi stranieri di tre anni che parlano italiano? Venerdì, dopo gli scontri in Calabria, una madre araba mi ha fermato all'uscita della scuola: “Tu fai il giornalista, cosa ci accadrà, adesso?”. Le ho risposto: “Nulla”. Invece aveva ragione lei. Sto provando a immaginare dove dovrebbero mandare i bimbi che non avrebbero più diritto alla loro scuola, i “fuoriquota”. Li deportano altrove con il pullmino? In qualche bella scuola dove c'è un posto etnico per stranieri libero? In qualche asilo dei Parioli? L'unico problema di quota che ho visto a scuola sono due gemelline cinesi di tre anni. Ogni volta che le maestre hanno provato a dividerle pianti a dirotto. Erano diventate la favola della scuola. Oggi cosa faranno? Alla fine, le maestre le hanno riunite. Lieto fine. Speriamo che dopo aver riunito le gemelle, l'anno prossimo, non si debbano dividere i bimbi. Anche perché, forse, il buonsenso delle maestre prevale sui decreti delle ministre ministri.

Luca Telese

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6 commenti »

  1. la cosa più tragica caro Luca è sentire usare dalla mnistra la parola ghetto

  2. Caro Telese,
    le elementari sono diverse dall’asilo. Il problema si pone. Lo dico anche io sulla base dell’esperienza di padre di due bambini passati dal nido alla scuola primaria, orgogliosamente pubblica. Grande soddisfazione ai primi anni sperimentando tutte le virtù delle classi multietniche; ottima preparazione delle insegnanti e delle strutture, tra le migliori d’Italia nella treviso amministrata dalla Lega; bellissimi legami con bambini e genitori di altre parti del mondo, che proseguono ancora oggi attraverso reti informali di mutuo aiuto tra vicini: la scuola pubblica e “mista” è uno dei primi strumenti di integrazione.
    Ma le classi ghetto alle elementari, dove vengano confinati in stragrande maggioranza figli di stranieri, sono la negazione di questo modello. Già è forte il flusso degli autoctoni benestanti che iscrivono i figli alle private (cattoliche, steineriane, internazionali) alla ricerca dell’eccellenza che la scuoa pubblica sta perdendo sotto i colpi delle controriforme e dei tagli. Istituire di fatto delle classi differenziali per i figli degli stranieri accentuerebbe la creazione di zone socialmente ed etnicamente “pure”. Se non governato il fenomeno tenderà a procedere spontaneamente.
    Salvo eccezioni individuali, i figli di stranieri hanno maggiori difficoltà di apprendimento, per ragioni linguistiche, culturali, sociali. Stiamo vivendo, in forma amplificata, lo stesso fenomeno introdotto negli anni sessanta dalla nascita della scuola media unica e dalla scolarizzazione di massa delle classi popolari e contadine. Noi ci attrezziamo sulla base di quelle reti di vicinato, aiutando a fare i compiti i bambini i cui genitori chiedono aiuto, avendo essi enormi difficoltà con l’italiano, ma anche con le altre materie di base. Ma la buona volontà dei singoli non può sostituire le scelte dell’istituzione. Creare classi delle elementari con alta % di figli di stranieri significa rallentare la preparzione di tutta la classe; una % più contenuta consente invece alla maggioranza socialmente svantaggiata di trascinare la minoranza in difficoltà. Non governare questo processo sulla base del buonismo produrrebbe un’ulteriore penalizzazione dell’intera scuola pubblica, e i primi a risnetirne sarebbero tutti coloro (italiani e stranieri) che non possono permettere di spostarsi in una scuola privata: costosa, iniqua, deleteriamente etnicamente “pura” ma efficiente.
    L’emotività e le buone intenzioni a volte non bastano a orientare le scelte politiche. Possono essere anzi controproducenti, come dimostra lo scempio di Rosarno. Te lo scrivo dal Veneto “razzista”, dove i pogrom contro i neri non si sono ancora visti. Nonostante la Lega. O forse grazie alla Lega (e a tanti amministratori anche di sinistra che a Padova, come a Venezia w in molti piccoli comuni del territorio, si sono posti il problema, scomodo, di governare l’immigrazione e le sue conseguenze, spesso scontrandosi con i “puri di cuore” che predicavano l’impolitica e generica accoglienza senza regole e senza risorse).

  3. Luca, ti cito un pezzo del mio ultimo post, su lblog dell’Anti-Zanzara. Ciao da Authan

    ——-

    Un altro tema d’interesse, misteriosamente ignorato da Cruciani venerdì scorso (forse perché ancora non c’erano reazioni forti. Crux più che commentare le notizie commenta le reazioni forti ad esse), poteva essere quello del tetto del 30% al numero di alunni stranieri nelle scuole stabilito dal Ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini. Su questo provvedimento avrei qualche considerazione da avanzare, specie dopo aver letto, sul Fatto, l’articolo quasi commovente di Luca Telese, il quale invita il ministro dell’istruzione a visitare la scuola materna frequentata dal suo figlioletto.

    Ciò che Telese racconta, e cioè che nell’asilo in questione la massiccia presenza di bimbi stranieri, i quali sono addiruttura la maggioranza assoluta, non crea il benché minimo problema (i bimbi parlano tutti bene l’italiano e interagiscono tra loro senza alcuna difficoltà), è bellissimo e suadente, e si incastonerebbe perfettamente nel libro Cuore di De Amicis. Però a Telese-for-president, forse nella smania di voler dar sfogo ai suoi sentimenti, è sfuggito un punto fondamentale: in un asilo le attività ludiche prevalgono su quelle educative. Le considerazioni avanzate da Luca non si possono applicare as-is nei contesti delle scuole elementari, medie e superiori, dove non si va per giocare ma per imparare. E infatti il provvedimento della Gelmini non riguarda le scuole materne, ma solo quelle di grado superiore.

    Bisogna essere seri e realisti nell’analizzare i fatti. Rispondete sinceramente a questa domanda: se voi aveste un figlio iscritto in una classe elementare con venti stranieri, quindici dei quali, essendo magari arrivati da poco nel nostro Paese, hanno difficoltà con la lingua italiana (chiamiamoli, solo per brevità, “stranieri difficili”), non avreste proprio nulla da ridire? Non ci credo.

    Gli approcci possibili, in questi casi, sono due. O si ammassano gli “stranieri difficili” in una o poche classi, o li si spalmano su tutte le classi. Domanda: nell’ottica di facilitare l’integrazione, quale dei due approcci è più produttivo? Non c’è dubbio: la “spalmatura” degli stranieri è il sistema migliore. E se la “spalmatura”, anziché essere limitata all’interno delle singole scuole, viene organizzata in modo coordinato così da essere estesa ad un certo numero di scuole limitrofe, io vedo in ciò un miglioramento dello status quo.

    La cosa più pazzesca in assoluto è la posizione della Lega. Mi fa letteralmente sganasciare dal ridere leggere sulla Padania, in un pezzo a firma di Andrea Accorsi, che il movimento nordista è soddisfatto di questo tetto del 30% in quanto esso sposerebbe proprio la linea indicata dal Carroccio. Ma di che stiamo parlando? Si rende conto la Lega che, tra gli effetti collaterali delle nuove disposizioni, ci sarà quello di un aumento degli “stranieri difficili”, per via della maggiormente diffusa spalmatura, in alcune classi dove oggi, magari, ce ne sono pochissimi, se non zero?

    Alla luce del fatto che gli stranieri “di troppo” nelle scuole dove la soglia del 30% è superata dovranno pur essere iscritti in qualche altro istituto (se qualche idiota pensa realmente che “gli esuberi” possano essere abbandonati a loro stessi, beh, mi duole comunicare loro che non è così, come ha spiegato la stessa Gelmini), cosa penseranno quei genitori, magari elettori leghisti, che oggi scelgono per i propri figli le scuole con la minor presenza possibile di stranieri, e che gioiscono se tutti gli alunni di altre etnie vengono concentrati altrove, in classi-ghetto? Saranno contenti della novità? Non credo proprio.

    Ora, intendiamoci. Il fatto che io veda di buon occhio il provvedimento Gelmini non mi impedisce di notare la presenza di alcuni ostacoli non indifferenti, specie di natura logistica. Ci sono aree, specie in certi quartieri metropolitani, in cui la presenza di stranieri è talmente massiccia che far rispettare le quote del 30% sarà problematico, anche ipotizzando un lavoro di spalmatura esercitato nel modo più ottimale possibile.

    Ma secondo me la scappatoia per queste situazioni c’è. Leggo, guarda caso proprio sulla Padania, nel medesimo articolo citato poco sopra, che “il limite del 30% potrà essere innalzato, su decisione del direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale, in presenza di alunni stranieri già in possesso delle adeguate competenze linguistiche”. In altre parole, gli alunni stranieri che già padroneggiano l’italiano (in pratica tutti quelli che hanno gia frequentato interamente da noi almeno un anno scolastico, visto che in un anno la lingua s’impara) potranno non essere conteggiati nel calcolo della soglia. In aggiunta a ciò, lo stesso ministro Gelmini, ospite del programma di Maria Annunziata, ha precisato che i bambini stranieri nati in Italia saranno conteggiati come italiani.

    Insomma, io non credo che gli “stranieri difficili”, cioè quelli arrivati da poco in Italia e che presumibilmente si iscrivono a scuola da noi per la prima volta, possano essere così tanti da creare situazioni irrisolvibili al fine del rispetto del tetto del 30% in tutte le classi. Si tratta solo di mettere a punto una buona organizzazione e un buon coordinamento.

    Morale della favola: al di là dello strumentale, ipocrita e falsissimo cantar vittoria della Lega, che in tal modo prende in giro i suoi stessi elettori, la semplice analisi dei fatti ci dice che il provvedimento Gelmini, il quale, come spiegato poc’anzi, favorisce l’integrazione, è quanto di più anti-leghista ci possa essere. E’ l’esatto opposto della teoria delle classi separate (fittiziamente denominate “classi ponte”, di sicuro le ricordate) che tempo fa venivano prospettate, nella sua visione emarginatrice degli immigrati, proprio dalla Lega.

    Pertanto, coloro che, come Antonio Di Pietro e altri, gridano al “razzismo”, alla “salvaguardia della specie e dell’identità nazionale”, e quelli che, come l’Unità, parla di “cadeau” alla Lega, secondo me non hanno capito quasi nulla di ciò di cui si sta parlando, dando per scontati presupposti errati, oppure, come purtroppo spesso accade, criticano per partito preso qualunque cosa dica e faccia un ministro dell’attuale governo solo perché sta “dall’altra parte”.

  4. Caro Alessandro,
    il problema che io pongo non è che non ci siano difficoltà. Ma che provare a torvare una quota che risolva le difficoltà mi pare un’utopia. Le quote, se dovessero essere applicate – ripeto, non le hanno fatte in Francia – o sono iperflessibili (Gelmini 2) oppore sono iperdannose. Tutto qui.
    Luca

  5. Le lezioni dei bambini

    Mia figlia é andata in un asilo dove più del famigerato 30% (vedi Gelmini) era di bambini e bambine stranieri. Una delle sue due compagne di banco veniva dall’Africa (non so bene lo Stato di provenienza). Un giorno non sapendo il nome delle due compagne di banco con cui lei giocava, le ho chiesto “come si chiama la tua compagna di banco?” – e lei – quale? –
    ed io- quella di colore –
    e lei – che significa di colore? –
    ed io – quella mora mora –
    e lei – quale? –
    Mi sono resa conto che per mia figlia che allora aveva 4 anni le differenze non esistevano….che lezione…..

  6. Caro Luca permettimi uno sfogo: non ne posso più del terrore del diverso. Lavoro da quasi cinque anni a stretto contatto col pubblico (in una farmacia prima e in una para- poi) e da quando il “diverso” lo frequento da vicino ho perduto e sconfitto molti di quei pregiudizi che campeggiano nelle teste dei miei coetanei e concittadini. Senza voler fare retorica ed essere buonisti riscontro per esempio negli atteggiamenti di molti nordafricani musulmani (uomini e donne) un rispetto e un ascolto che a volte non trovo nemmeno negli italiani, sempre molto diffidenti. Lavorando in un centro commerciale in una zona industriale con un forte sviluppo mi trovo davanti clienti multietinici che vanno dalle badanti ucraine, alle colf rumene fino ai senegalesi dei cantieri navali. Quando l'”altro”, il “diverso” capisce di essere trattato da pari, diventa davvero un patrimonio e un arricchimento per tutti. Così mi meraviglio e mi fa piacere quando diventano clienti abituali e quando per strada mi riconoscono e mi salutano. Lo so che sembra un quadro un pò patinato e finto, ma ti assicuro che è la sempilce esperienza del mio quotidiano.

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