Luca Telese

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Luca Telese
Luca telese

Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

«Una storia italiana unica tra gol e riscatto sociale»

Intervista di GIOVANNI TOSCO, Tuttosport 12 aprile 2020

La domenica in cui il Cagliari vinse lo scudetto, Luca Telese era nato da due giorni. Ed era nato proprio a Cagliari, da madre sarda e padre napoletano. Era inevitabile che quella curiosa coincidenza accompagnasse nel tempo il popolare giornalista, fino a sfociare oggi in un libro appassionato e appassionante, “Cuori rossoblù”, che ripercorre la straordinaria impresa diventata l’orgoglio di un’isola.

Luca, come hai coltivato dentro te questa idea?

«Mi piaceva scrivere un libro che in qualche modo legasse i miei cinquant’anni con la ricorrenza dello scudetto del Cagliari. Malgrado il rifiuto di alcuni editori ho continuato a lavorarci finché il 3 gennaio Giulini mi chiamò per dirmi che Riva aveva finalmente accettato di diventare presidente onorario e che avrebbe voluto che lo intervistassi per la rivista della società, alla quale collaboro. Ero a Torino e stavo partendo per una convention in Puglia, ma presi il primo volo per la Sardegna e lì – nella casa di Riva, dove tutto è fermo agli anni Sessanta – mi resi conto che era arrivato il momento. Lo proposi a Michela Gallio, responsabile della saggistica di Solferino, che ne parlò a Cairo: “Questa è storia italiana. Fatelo”, sentenziò».

Molto ruota attorno a Riva, inevitabilmente, ma non solo…

«Sono tutte storie bellissime, che a Cagliari si intrecciano per raggiungere uno dei punti più alti di un’epoca unica. Era, nella maggior parte dei casi, gente che veniva dalla fabbrica, dai campi, da collegi: dalla povertà sana degli anni Cinquanta, insomma. Quella squadra rappresentava per quasi tutti il riscatto sociale».

Sulla panchina c’era un allenatore che pare uscito da un romanzo: Manlio Scopigno.

«Era il cardine di tutto. Un tecnico molto moderno – fu lui a inventare il “falso nueve”, chiamandolo centravanti arretrato – , taciturno, rispettoso ma deciso quand’era il momento. E tremendamente ironico: per una battuta era disposto a perdere il posto di lavoro, come per davvero accadde. Lo agitava il demone dell’alcol, ma nonostante questo ebbe la tenacia e la convinzione di credere in quel progetto anche quando venne allontanato dal Cagliari perché, ubriaco, aveva fatto la pipì nel giardino del console italiano a Chicago durante un ricevimento ufficiale, per poi essere richiamato dopo un anno trascorso a fare l’osservatore per l’Inter».

La proprietà del club era suddivisa tra la Sir di Rovelli e la Saras di Moratti, che nella regione costruirono fabbriche e acquistarono, oltre al Cagliari, la squadra di pallacanestro.

«I bilanci all’epoca non erano pubblici, per cui era difficile capire come stessero le cose. C’era chi sosteneva che investire nello sport fosse un modo per accattivarsi le simpatie della gente, ma Giorgio Poidomani – allora giovane manager della Sir – mi ha poi spiegato con chiarezza che non c’era questa necessità, considerati i posti di lavoro creati. Semmai, era la volontà di trasmettere al mondo un’immagine diversa, lontana il più possibile da quella dei pastori e dei nuraghi. Tra l’altro i costi furono molto contenuti grazie anche alla bravura di Andrea Arrica, vicepresidente ma di fatto deus ex machina».

Le cessioni erano finalizzate a rafforzare comunque la squadra. L’unico a non lasciare mai l’isola fu Riva.

«Disse no alle continue proposte della Juve e anche a quelle dell’Inter, dove invece andò Boninsegna. Non devo spiegare io le sue straordinarie qualità di calciatore, ma, tra i tanti possibili aneddoti, mi piace ricordare quello di Danilo Pirosi, il ragazzo siciliano che, posizionato dietro la porta di Albertosi per seguire un allenamento a Roma prima di una partita con la Lazio, venne colpito da uno dei potentissimi tiri di Riva, che gli fratturò un braccio. Gigi lo raggiunse in ospedale, gli regalò un pallone e un biglietto per la partita e alla fine Danilo divenne il braccio rotto più invidiato d’Italia. Ma questa scena non è stata cancellata dai ricordi di Riva. Ancora cinque anni fa chiese a Elisabetta Scorcu, che tra le altre cose cura per la società i rapporti con i campioni d’Italia del 1970, di rintracciarlo. Malgrado gli sforzi non ci è riuscita e mi piacerebbe che attraverso il mio libro si riunissero le storie del campione e del bambino. Perché Riva è anche questo».

La partita che consegnò lo scudetto al Cagliari fu quella col Bari ma la certezza era già arrivata dopo il 2-2 in casa della Juve.

«Una giornata pazzesca. Un improvviso sciopero degli operatori Rai impedì di avere le immagini e quindi la moviola. Autogol di Niccolai, pareggio di Riva, poi Lo Bello concesse un rigore alla Juve che Albertosi parò a Haller. L’arbitro lo fece ripetere: Anastasi lo trasformò tra le lacrime di Albertosi. Gigi iniziò a inseguire e insultare Lo Bello che non lo espulse ma disse una frase sibillina a Cera: “Lanciate la palla lunga a Riva”. E nel finale punì con il rigore un fallo di Salvadore ai danni di Riva, che segnò il 2-2. Forse si era accorto di aver commesso un errore e aveva in qualche modo escogitato un auto Var. Non lo sapremo mai».


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