Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Renzi, se quel giubotto è una scelta tattica

di LUCA TELESE

La foto che resterà di lui, almeno in questo lungo anno che lo ha visto protagonista, racchiude in una sola immagine tutti i pregi, e tutti i difetti di Matteo Renzi. Nell'inquadratura si vede il sindaco di Firenze che alza il braccio per salutare, mentre entra sotto i riflettori nello studio di "Amici". E che subito dopo abbraccia Maria De Filippi, come se fosse una vecchia compagna di battaglie. Solo poche settimane più tardi, dopo essere stato sommerso di critiche per questa ospitata carica di valore simbolico, nel tempio più sacro dell'intrattenimento Mediaset, Matteo Renzi accetta di posare, spavaldamente, con lo stesso giubbotto alla "Happy Days", per la copertina del settimanale punta di diamante della Mondadori, Chi: "So che la sinistra radical mi attaccherà, ma è giusto arrivare a tutti!". Certo, il sindaco di Firenze non è uno che si spaventa. Tant'è vero che alle polemiche sulla sua immagine ha risposto alla sua maniera, con una raffica di interviste politiche in cui ha spiegato che il governo di Enrico Letta (di cui pure aveva salutato con gioia l'avvento) adesso non lo entusiasma affatto. La sua linea è, anche stavolta, riassunta in una battuta folgorante: "Non vorrei che passassimo dalle larghe intese alle lunghe attese". Due giorni fa, su La Repubblica, ha rotto gli indugi anche sulla vita interna del Pd: "Potrei candidarmi a segretario". Lascia o raddopia, tutto o niente.

La foto con il giubbotto, dunque, è una scelta tattica, un modo di tenere la scena anche in un momento in cui è fuori dalla stanza dei bottoni, e in cui si deve tenere il bilico su due sfide mozzafiato: quella per la guida del governo, e quella per la guida del Pd. Renzi stigmatizzava le ironie dei radical chic sulla sua posa alla Fonzarelli, ma dopo quella mossa, invece, l'appellativo più caustico, gli è arrivato da uno che non è ne di sinistra, nè radical, casomai solo chic. Infatti, da quel giorno, Roberto D'Agostino sul suo sito scrive: "Siamo passati da Fonzie a Renzie". Negli ultimissimi giorni, dopo il clamoroso pranzo tra il sindaco di Firenze e Flavio Briatore, lo stesso D'Agostino ha distillato la battuta più essenziale: "Con questo incontro è nato il Bullonaire". Eppure, bullo o meno, Matteo Renzi è ancora e sempre al centro della scena. Rischia di bruciarsi, è vero, ma cinque anni fa era solo un amministratore di periferia, mentre oggi – fino a prova contraria – è un possibile presidente del consiglio. Di fronte al governo della larghe intese si gioca il suo destino: o quello di essere fermato da un altro ex democristiano dopo aver visto cadere tutti gli altri ostacoli, oppure di trovare il trampolino di lancio per una vittoriosa campagna elettorale. Però si trova davanti anche un dilemma: può fare una opposizione di sinistra ad Alfano e Letta, proprio lui che era indicato come il simbolo della destra della sinistra? Lo vedremo tra poco.

Prima di tutto bisogna provare a raccontarlo, Renzi. Quella foto ingiubbottata – infatti – riassume i pregi e difetti di un aspirante leader che ha una storia lunga e complessa, molto meno semplice di quello che i media a volte cercano di tratteggiare. Da ragazzino inizia a fare politica nei giovani della Democrazia Cristiana di cui il padre è un dirigente locale. Matteo è del 1975, e racconta: "Ho iniziato a fare politica nell'anno in ci è caduto il muro di Berlino, avevo quattordici anni". In quella federazione giovanile democristiana, tanto per dare l'idea, i dirigenti di primo piano si chiamano Dario Franceschini, Angelino Alfano e un giovane di buona famiglia scoperto da Beniamino Andreatta che si chiama Enrico Letta. Quando nel 1994 la Dc si scinde, di fronte alla nascita della Casa delle libertà e alla scelta di campo di Rocco Buttiglione, Renzi si avvicina ai Popolari, dove se lo ricorda un giornalista che all'epoca era dirigente nazionale, Mario Adinolfi: "Era il nostro fiduciario fiorentino, ed era esattamente come oggi: un grandissimo paraculo, un genio della comunicazione, un dirigente giovsane ma molto scaltro". Però i percorsi della politica sono tortuosi e non sempre lineari: anche il sindaco di Palermo Leoluca Orlando ha rivendicato lo scouting del giovane Matteo: "Me lo ricordo giovane e brillantissimo quadro dirigente della mia Rete, negli anni fra il 1990 e il 1994". Quindi più a sinistra, secondo Orlando, e quasi nello stesso periodo. Senonché anche Francesco Rutelli contende agli altri il primato della scoperta: "Possono dire quello che vogliono: Matteo è diventato qualcuno nella Margherita, con me" (ed è vero che il primo intervento politico nazionale avviene proprio al congresso della Margherita da rutelliano "doc").

Ma il nodo è un altro: in quel tempo, il giovane Matteo è legato, ancora più che a una corrente, ad un vincolo di amicizia e di solidarietà politica: quello cioè con Lapo Pistelli, altro figlio d'ate dello scudocrociato, con cui scrive a quattro mani il suo primo pamphlet politico: "Ma le giubbe rosse non uccisero Aldo Moro. La politica spiegata a mio fratello". Il fratello del titolo, però è quello di Pistelli, e il libro, che raccoglie persino interventi di Romano Prodi e Luciano Violante, e denuncia già il passo della battalgia genrazionale, all'epoca viene considerato come il primo passo della carriera di Lapo, piuttosto che di quella Matteo. Anni dopo Renzi mi racconterà: "Altro che ingratitudine: l'avevo scritto dalla prima all'ultima riga io". Mentre Pistelli, molto tempo dopo, ha chiosato con amarezza: "Io di Matteo non dirò mai più una sola parola. E' uno che ha ucciso un rapporto umano per la sua ambizione". Il fatto a cui Pistelli allude senza voler raccontare è questo: dopo essere diventato pesidente della provincia di Firenze nel 2004, nel 2009 Renzi compie il suo primo grande salto, agiudicandosi le primarie per la candidatura a sindaco di Firenze, con una sprendente vittoria nelle primarie del Pd. Contro di chi? Contro un solido dirigente di partito che viene dalla storia del Pci che si chiama Michele Ventura. E poi proprio contro il suo ex amico del cuore, ovvero contro lo stesso Pistelli: "Io non gli ho mai rimproverato di essersi candidato. Ma piuttosto la sua insincerità nel non avermelo voluto dire fino all'ultimo". Altro ricordo, questa volta di Matteo: "Mi chiamò dopo le primarie e mi disse: 'Hai ucciso il padre".

Sta di fatto che il libro del 2006, "Tra De Gasperi e gli U2", riassume fin dal titolo tutto l'eclettismo del futuro sindaco, ma è scritto rigorosamente da solo. Così come i due best seller che segnano in sequenza il passaggio alla Rizzoli: "Fuori" e "Stil Novo", il libro che annuncia la sfida delle primarie, e riassume con un altro sottotitolo emblematico il carattere di Renzi: "Da Dante a twitter". Già quello è un programma.

A vent'anni, però, si celebra anche un altro battesimo importante, quasi quanto quello della politica. E' l'esordio catodico della Ruota della Fortuna, dove concorre per un quiz, vince 36 milioni ("Li diedi ai mi padre che era in difficoltà con l'azienda") e produce uno spezzone destinato a diventare un tormentone di youtube.

La foto con il giubbotto dalla De Filippi, quindi, ci dice almeno due cose. Da un lato che Renzi è un velociraptor della comunicazione, capace di fiutare il vento, di cavalcare idee e suggestioni con una maestria senza pari. Dall'altro che il suo punto debole è una certa vulnerabilità al narcisismo mediatico: appartiene a quella categoria di politici che potrebbero anche morire per conquistare una prima pagina o un titolo. Se c'è una cosa che può logorarlo, in questa lunga guerra di posizione, è lo stress dell'attesa.

Fino alle primarie contro Pierluigi Bersani, poi, Renzi aveva un tallone di Achille. Quello di essere andato ad incontrare Silvio Berlusconi ad Arcore, in circostanze non chiarissime. "Si trattava di un colloquio per questioni che rigardavano la mia città", ha sempre detto lui. "Se devo parlare con un presidente del cosiglio di questioni istituzionali – gli ha rimproverato senza citarlo Pierluigi Bersani – io vado a palazzo Chigi, non certo a casa sua". Il punto debole, nella polemica infuocata che si era trascinata per mesi, non era solo l'incontro, ma il fatto che Renzi non lo avesse raccontato subito dopo. E questa riservatezza, poi bruciata dalle indiscrezioni, gli veniva rimproverata come testimonianza di chissà quale compromissione, il segno di un patto segreto con il nemico giurato della sinistra. Il fatto curioso, però, è che nel marzo del 2009, prima di questo enorme polverone, lo stesso Renzi aveva già rivelato un clamoroso dialogo con Silvio Berlusconi, con relativa proposta politica: «La prima volta che l’ho incontrato mi ha detto: "Ma come fa uno come lei che viene dal marketing a vestirsi di marrone e a stare con questi comunisti? Venga con noi"». Ad un incredulo Vittorio Zincone, intervistatore di Magazine, subito dopo, Matteo aveva spiegato: «Berlusconi quando vuole una cosa, cerca di comprarla. Tempo fa mi è arrivata una proposta carina per fare il sindaco col Pdl». Per anni è circolata un'altra voce, mai provata, che l'intermediario di questi incontri più o meno cladestini fosse un dirigente fiorentino del Pdl del calibro di Denis Verdini, e che il successo alle prime primarie vinte da Matteo sarebbe stato in parte agevolato anche da un "soccorso azzurro" del Pdl. Non esiste una sola prova. Ma l'affinità era anche di stile: «Berlusconi – diceva Renzi sempre nel 2009 – nel bene, e soprattutto nel male, è l’uomo che ha cambiato tutte le cose che amo: il calcio, il marketing, la politica». Di certo oggi, dopo le centinaia di polemiche sulla visita ad Arcore, Renzi non racconterebbe più con questa disinvoltura un incontro con il Cavaliere, ed infatti adesso dice (capovolgendo con molta efficacia l'accusa): "Ma come? A me ne hanno dette di tutti i colori per una sola cena con il Cavaliere! Poi, gli stessi che mi hanno criticato, sono quelli che ci hanno fatto un governo insieme?".

Volendo si potrebbe comporre una biografia di Renzi soltanto raccogliendo il florilegio della sua fervida produzione di slogan e di battute efficacissime. Intervistato dalla Stampa definì Dario Franceschini (quando era ancora il segretario del Pd) "Vicedisastro", e coniò per Massimo D'Alema, e tutta la classe dirigente anziana del suo stesso partito il termine "Rottamazione", ormai entrato nel vocabolario della politica e della lingua italiana. Sempre all'ex ministro degli esteri, stando ai suoi stessi racconti, si deve la sua discesa in campo nelle primarie per il sindaco di Firenze: «Presi la decisione, dentro di me, dopo aver ascoltato un discorso di D’Alema. Nel settembre 2008, alla Festa del Pd di Firenze. Lui ironizzava sul ricambio generazionale: "Se hanno idee si facciano avanti. Abbiano un po’ di coraggio". Allora ho deciso che era il momento. Aveva ragione lui. Ci sono troppi dirigenti nel Pd che giocano a fare i cooptati». Scelta comunque coraggiosa e non facile: "Se perdevo le primarie stavo per strada, avevo pronto il cartello: "AAA offresi trentaquattrenne con esperienza nel pubblico e nel privato"».

Renzi ha grande capacità tattica. Nel 2010, quando Nichi Vendola vince le primarie in Puglia, e pare proiettato sulla ribalta nazionale si gioca benissimo le sue carte, e – con il senno del poi – lo usa come un cavalo di Troia. Lo statuto del Pd, infatti, se si seguisse la norma che vuole come unico candidato il segretario, gli impedisce di correre. E lui infatti dice: "Se dovessimo scegliere domani voterei Vendola contro Bersani. Io non ho dubbi, ho un lavoro da fare, è quello che mi piace di più, e continuerò a fare il sindaco di Firenze". Però intanto le primarie restano in piedi e la leadership di Bersani è insidiata. Nel 2011, quando nasce il governo di Mario Monti tutti dicono, prematuramente, che Renzi è finito: "E' un governo centrista, come quello che voleva lui, che proposta politica gli rimane?". Invece tutti i calcoli sono sballati. Nel 2010 da sindaco di Firenze promuove una prima assemblea della Leopolda insieme a Pippo Civanti e Debora Serracchiani. E' una convention in cui vengono rotti tutti gli schemi, sembra un format radiofonico-televisivo, il successo sui giornali e in tv è grandissimo. Il patto con Civati non regge, la Leopolda sì. Si avvicinano a lui intellettuali come Alessandro Baricco, come il regista Fausto Brizzi, come l'ex direttore di Canale 5 Giorgio Gori. "E' una sua creatura", insinuano di nuovo le malelingue, che adesso abitano a via del Nazareno, sede nazionale del Pd e avamposto dei bersaniani. Invece posso testimoniare che Renzi consadiera Gori quasi "un consulente": quando il grande comunicatore lo aiuterà ad allestire il tour delle primarie in cui sfida Bersani con un vero e proprio spettacolo di video e tormentoni, mi dirà in un camerino de La7: "Tutti dicono che si è inventato ogni dettaglio Gori, ma se vi andate a rivedere la prima Leopolda, c'era già tutto quello che ho potato in scena oggi". Però il rapporto di passione e dipendenza con Gori è la spia di un altro dilemma. Matteo è un grandissimo solista, ma fatica a costruire delle squadre, molti che si avvicinano a lui – come Civati e Gori – poi si allontanano. Anche i due principali uomini macchina della durissima battaglia per le primarie, Lino Paganelli e Roberto Reggi, dopo un diktat di Bersani a cui il sindaco cede, resteranno entrambi fuori dal parlamento.

Ma se si trascura questo dettaglio, le primarie del 2012 costituiscono un altro enorme salto di qualità. Dopo aver apparentemente esitato (in realtà aveva girato feste de l'Unità per tutta l'estate), Renzi si candida ufficialmnte il 13 settembre durante un comizio a Verona. "Siamo in cinque – dice – ma in realtà son tutti contro di me". C'è del vero, perché nel frattempo Vendola ha stretto un pastto di ferrea alleanza con Bersani, e sia Laura Puppato che Bruno Tabacci (candidato dall'ex padrino Rutelli!) spalleggiano il segretario. Per la sua campagna elettorale, Renzi organizza un tour per l'Italia a bordo di un camper, che lo porta a toccare, tra settembre e novembre 2012, tutte le province italiane. E' sempre il televisione, ed è sempre sui social network, da cui non si stacca mai, grazie al suo I-phone con fodera obamiana. Commette solo due grandi errori, sfruttati bene dai suoi avversari: ricorrere ad un aereo privato per qualche tappa, e – soprattutto – organizzare una cena di finanziamento a Milano con un finanziere che si chiama David Serra. Serra raccoglie tutto il mondo della finanza, buona parte del quale viene dal centrodestra. E' lo stesso Renzi ad accendere i riflettori, ma Bersani attacca a testa bassa ("Non mi faccio dare la linea da chi porta i soldi alle Cayman") e la polemica finisce addirittura con una querela tra Serra e il segretario del Pd. Nel primo turno, che si svolge il 25 novembre Renzi raccoglie il 35,5%. Per Bersani il 44,9% è un trionfo. A Renzi riesce il miracolo di essere il candidato più votato nelle cosiddette "regioni rosse" come Toscana, Umbria e Marche. Però, a questo punto sceglie di aprire una polemica sulle regole che gli aliena le simpatie della base più militante. "Andate a votare lo stesso", dice il fido Reggi agli elettori che non si sono registrati al primo turno. "E' un golpe", rispondono i bersaniani come Nico Stumpo. "Vuole invalidare le primarie", grida il segretario. Nel secondo turno, il 2 dicembre, perde contro Bersani con il 39,1%. Ancora una volta ha funzionato bene nella fase di sfondamento, ma ha peso in quella di costruzione.

Poi ci sono le politiche, e la sconfitta drammatica del segretario: la "Non vittoria", riapre i giochi. Il sindaco ha portato in parlamento una grande pattuglia (55 deputati) goca di grande astuzia, la fa pesare nei momenti decisivi. Con una intervista alle Invasioni Barbariche impallina in un colpo solo la candidatura di Franco Marini e quella di Anna Fionocchiaro per il Colle. E poi – forse – qualcuno dei suoi mette uno zampino anche sul voto dei 101 franchi tiratori che affondano il candidato che lui ufficialmente appoggia, Romano Prodi. Adesso, dopo aver vinto contro il mitico apparato del Pd, si ritrova davanti la tradizione democrisitana in cui è cresciuto, in uno scontro fratricida con Letta. Per conquistare Palazzo Chigi, quindi, deve di nuovo azzardare un passo pericoloso, misurandosi per la leadeship del Pd. Se vince vince tutto, se perde scompare, e diventa un nuovo Mario Segni, uno che – pur avendo grandi possibilità – ha smarrito il biglietto vincente nella lotteria della politica italiana.

(da L'Unione Sarda)


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8 risposte a “Renzi, se quel giubotto è una scelta tattica”

  1. Avatar Clesippo Geganio
    Clesippo Geganio

    M.Renzi il piccolo erede democristiano di Andreotti.
    Invece di indossare giubbotti fare il piacione toscano perchè non fa i nomi dei 101 tiratori scelti che hanno colpito ed affondato il PD?

  2. Avatar Kork
    Kork

    spero che lo eleggano segretario del PD così farà sparire dalla faccia della terra questo partito falsamente di sinistra.

  3. Avatar Clesippo Geganio
    Clesippo Geganio

    il caro M.Renzi democristiano dovrebbe avere il coraggio di fare i nomi dei 101 cecchini che hanno distrutto il Paese non votando Prodi nè Rodotà facendo salire al governo l’ex DC travestita da PdL.

    Ma perchè nessuno si rende conto che all’interno del PD hanno accolto di buon grado un cavallo di troia di efferati cecchini che eliminano uno per volta i propabili leader della sinistra?

  4. Avatar tred
    tred

    alle prossime primarie lo voterò così determinerò la fine del PD.

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