di LUCA TELESE
Adesso è arrivato al governo anche lui, fresco viceministro di un governo che fino a ieri considerava “moderato”. Pochi giorni fa diceva in pubblico: “C’è troppo governo Monti nel governo Letta!” e lo contestava. Oggi, per uno strano contrappasso, ne fa più prosaicamente parte. Se riuscite a indovinare perché, potreste persino riuscire a capire cosa sta succedendo in queste ore nel partito democratico. Se non avete ancora indovinato non vi preoccupate, serve almeno una di queste due doti: una buona dose di fantasia o un master in politologia.
Per questo fate attenzione a tutti i tasselli che sono sul tavolo, e non date dell’incoerente – per quelle frasi – a Stefano Fassina, il nome più importante che scintilla nella nuova pattuglia dei sottosegretari appena nominati: è il Pd che è in queste ore è diventato il partito più imprevedibile del mondo, ed è la sopraffina arte democristiana di Enrico Letta che sta affermando, sotto l’ammaestramento di un motto antico – bacia la mano che non puoi tagliare – l’egemonia di una nuova scuola dorotea. Fino a dieci giorni fa le divisioni della politica italiana, sia nei partiti che tra gli schieramenti, erano sempre bipolari, divaricate e drammaticamente insanabili. Adesso sembra che improvvisamente accada il contrario: nel nuovo tempo, gli angoli si smussano, gli opposti si sommano, i nemici feroci di ieri si affratellano. E’ la neodemocristianeria duepuntozero. Dopo “la carica dei 101” (franchi tiratori) su Prodi, il gruppo è ridiventato unanime (o quasi) su Letta. Solo pochi mesi fa il “laburista Fassina” era il nemico giurato di Mario Monti (come vedremo tra poco è una rivalità antica), e sarebbe stato di certo bandito da un governo in cui il ministero-chiave dell’economia è in mano ad un uomo di Bankitalia e a Palazzo Chigi siede un giovane che ha idee economiche opposte alle sue. E invece oggi Fassina entra nella squadra dalla porta principale e con una delega pesante (la riforma fiscale). Il motivo è semplice, ma la spiegazione complessa. Il fatto è che in parallelo con la partita del Quirinale e quella del governo, se ne sta svolgendo (a rate) una altrettanto decisiva: il congresso del partito democratico. E siccome Fassina è stato uno dei dirigenti più votati d’Italia alle primarie per il parlamento, siccome è amatissimo dalla base, siccome era rimasto fino all’ultimo incrollabilmente fedele a Pierluigi Bersani, siccome aveva appena rotto con la sua corrente dei “giovani turchi” e sarebbe potuto diventare l’elemento aggregatore di una nuova opposizione interna, è stato più facile coinvolgerlo nel governo che regalare il suo volto ai suoi detrattori.
Così bisogna provare a spiegare come e perché Fassina e la sua collocazione politica sono diventate così importanti. Il primo motivo, per esempio, è che l’ex responsabile economico era anche in corsa per il delicato ruolo di reggente del partito. Ma siccome l’altro possibile nome è quello di Gianni Cuperlo, e Cuperlo era il dirigente che nel 1990 lo aveva fatto assurgere agli onori nazionali nominandolo responsabile degli universitari della Federazione Giovanile Comunista (di cui all’epoca era segretario) era impensabile che i due cominciassero a lottare uno contro l’altro. Ma se invece Fassina va al governo Cuperlo può diventare reggente, e il terzo pretendente al trono – l’ex segretario della Cgil Guglielmo Epifani – può prepararsi a scalare il partito in un congresso ad ottobre, in cui conta di diventare segretario. Epifani spera di riunire la diaspora della corrente bersaniana che è andata in frantumi dopo le dimissioni del segretario. Ed ecco l’organigramma che farebb contenti tutti: Fassina al governo, Cuperlo reggente, Matteo Renzi all’Anci, Epifani segretario, e poi bisognerebbe cambiare lo statuto per rimuovere l’elezione diretta del leader e la sua designazione del segretario a candidato premier. Vi siete persi? E’ normale. Andrà davvero così? Difficile dirlo fin da ora. Ma con questo equilibrio non si farebbe male (quasi) nessuno e i dissensi potrebbero essere tollerabili. Per ora hanno trovato corpo nella dissociazione di Pippo Civati (“Esco dall’aula, non voto, stiamo facendo il contrario di quello che abbiamo raccontato agli elettori”), e nella condanna di Sergio Cofferati: “Qui un giorno cambiamo lo statuto per cambiare leader, un giorno cambiamo leader per cambiare lo statuto, e alla fine i nostri militanti non capiscono più nulla!”. Difficile dargli torto.
Così bisogna tornare a Fassina, che in questo sudoku democratico è uno dei tasselli decisivi. Quando nel 2000 sbarcò in America, appena sposato con la sua fidanzata Rosaria per poter avere il sospirato visto di ingresso, quando finalmente lui che era un ex comunista aveva potuto poggiare il suo piede nella patria dei Kennedy e dei pensatori liberal, quando tutte le ansie di una vita (fino ad allora) precaria si erano dissolte di fronte ad una solidissima busta paga alla Interamerican Developement Bank, Stefano Fassina (che in questi giorni è considerato da tutti il più serioso dei leader emersi dal grande big bang delle anime del Pd) era corso a rendere omaggio a quello che considerava molto più che un punto di riferimento, un tempio. Il Congresso? Il Senato? La Casa bianca? “Macché, lo stadio: per poter ammirare – confessa lui stesso – una partita dei mitici Yankees”. Già. Perché il volto più noto della sinistra interna del partito, è uno che ti sorprende sempre. Tutti sanno che l’ex responsabile lavoro del Pd di Bersani è un uomo di numeri, cifre, di passioni antiche, ma pochi sanno che ha giocato per anni nella prima serie del baseball italiano con la squadra del comune dove è nato, il Nettuno: “Sono stato due volte campione d’Italia, avevo il desiderio quasi religioso di mettere piede in quello stadio”. Fassina nasce nella cittadina del litorale laziale, da una famiglia che un tempo si sarebbe definita proletaria. Il padre è operaio, la madre casalinga. Inizia a fare politica, nella Fgci, solo all’università, alla Bocconi di Milano. E chi si trova sulla strada, come preside del suo dipartimento? Il futuro premier Mario Monti: ha modo di conoscerlo come rappresentante del movimento studentesco che infiamma le facoltà del 1990, la Pantera. Su questo rapporto circolano tanti aneddoti, ma Fassina lo racconta così: “L’università voleva chiudere il dipartimento di discipline economico-sociali. Siccome io lo difendevo, alla fine Monti non si è opposto”. Fassina oggi ha due figli piccoli e uno di 24 anni, nato proprio in quegli anni. La moglie è un’amatissima maestra elementare del quartiere Esquilino di Roma. E lui uno che ha continuato a portare i figli nella stessa scuola anche quando è finito sotto scorta. In questi tempi il suo ruolo lo ha fatto diventare il beniamino dei talk show, ma lo ha anche esposto ai ruggiti dell’opinione pubblica. L’anno scorso, per esempio, riconosciuto da alcuni operai del Sulcis durante una manifestazione a Roma fu inseguito e insultato. Ironia della sorte: lui, che aveva appena sfiduciato Monti, veniva identificato con le sue politiche industriali. Così come più recentemente, il giorno dell’elezione di Napolitano, è stato apostrofato dai manifestanti che “circondavano” il parlamento. Lui si batteva nel partito per il governo del cambiamento con il movimento Cinque stelle, e gli attivisti del movimento Cinque stelle lo accusavano di essere al servizio del Pdl. Eppure, tutti questi episodi, comprese le minacce che gli sono valse un anno di tutela delle forze dell’ordine non lo hanno scomposto, perché Fassina è un grande incassatore. Ed è uno che si vanta di aver rinunciato a uno stipendio per fare politica, “Piuttosto che il contrario”. Lui che da giovane padre aveva dovuto contare le lire per sfamare il primo figlio racconta di aver avuto provato “uno choc” quando in America aveva letto la prima busta paga da neoassunto al fondo monetario internazionale: “Centomila dollari più i benefit. E chi li aveva visti mai?”. Fassina lavorava a New York anche l’11 settembre, in un ufficio a pochi metri dalla casa Bianca, quando dopo l’attacco alle due torri era tornato a casa traversando la città desertificata e cosparsa di una neve innaturale e cinerea: “Sembrava uno di quei film che vedi al cinema in cui la città è vittima di un attacco alieno”. In quei giorni fa la campagna porta a porta per Kerry (candidato democratico sconfitto), se ne va a vedere i seminari di Hillary Clinton al Brooking institute. Decide di tornare in Italia, nel 2005, con la morte nel cuore, perché c’è la campagna elettorale. Ma la passione politica è una malattia da cui non si guarisce mai. Lo mettono a scrivere il programma insieme ad un ex ministro come Pierluigi Bersani. Tra i due è un colpo di fulmine, la nascita di un sodalizio che non si è interrotto. Nel 2006 l’Ulivo vince e luin va a farsi le ossa al ministero dell’economia con Vincenzo Visco. E’ il supercollaboratore del superministro, il pupillo di un cervello economico della sinistra del Pds come Laura Pennacchi (sottosegretaria di quel governo): la sua formazione si completa in quell’esperienza: neokeynesiano, antiliberista. Il ruolo da protagonista arriva quando Bersani diventa segretario: Fassina sbaraglia l’eresia di Pietro Ichino, che vorrebbe una riforma del mercato del lavoro più flessibile: “Le sue idee nel Pd convincono solo il 2% degli iscritti”. C’è un po’ di perfidia, ma Fassina , nella battaglia politica, è tanto onesto quanto duro. Diventa con Matteo Orfini e Andrea Orlando il leader naturale dei giovani turchi. Vede Matteo Renzi come il fumo negli occhi, lo combatte con durezza nelle primarie. Ha buoni rapporti con i partiti socialisti europei, diventa in campagna elettorale il ministro designato del “Governo del cambiamento”. Quando legge il programma economico della coalizione scritto da lui, il grande rivale, Ichino, se ne va dal Pd sbattendo la porta: “Non mi ci posso riconoscere!”. Mentre Nichi Vendola (che era il responsabile culturale di quella stessa Fgci in cui lui dirigeva gli studenti) applaude: “Il mercato del lavoro sarà la prima grande riforma di cui ha bisogno l’Italia per cancellare le controriforme della Fornero”. Così Fassina diventa un nemico giurato delle politiche rigoriste: “Il commissario Olli Rehn – attacca – ha delle ricette depressive che non fanno bene all’Italia e nemmeno all’Europa”. Le sue parole suscitano un putiferio. “Si deve dimmettere!”, dichiarano i dirigenti della corrente liberal con in testa Enzo Bianco e ovviamente Ichino. Era meno di un anno fa: lui era in maggioranza, loro all’opposizione. Adesso tutto si è ribaltato: lui è al’opposizione, Letta, Franceschini e il renziano Del Rio sono l’asse forte di un governo in cui anche i nomi importanti del Pdl e della lista Monti (da Angelino Alfano a Mario Mauro) vengono dalle giovanili democristiane contro cui Fassina si batteva alla Bocconi. Solo il tempo ci dirà se l’ex “giovane turco” è stato domato dagli ex giovani democristiani. O se dopo essere transitato per il governo tornerà a scalare il partito. La chiave della partita di queste ore è tutta qui, seguite Fassina nella sua avventura di governo per capire come va a finire.
(da L'Unione Sarda)
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