di LUCA TELESE
Pensate, dopo quello che avete sentito ieri, a questa frase con cui il 26 agosto Silvio Berlusconi annunciava il suo sesto, malinconico, ma pur sempre megalomane, ritorno in campo: «Torna Batman al cinema, torna Beautiful su Canale 5 e torna di moda il Chinotto. Non ho capito: ma solo io non posso tornare?». C’era già inscritto, in questo senso di necessità narcisistica, il dramma dei mesi successivi e la disfatta a cui stiamo assistendo oggi. Il Berlusconi del tira-e-molla, dei moti di rabbia, del rifiuto del confronto con la realtà, della trasformazione di Angelino Alfano in uno scudo umano, il disprezzo per il suo stesso Pdl, trasformato in una bad company da rottamare senza nessun riguardo. Però, il dramma di oggi, è che è successo qualcosa di peggio di quello che Berlusconi temeva o paventava, anche sul piano dei simboli che lui stesso evocava: persino Dallas ha chiuso per mancanza di pubblico, e, ancor più drammaticamente, Gei Aranzi, il suo interprete Larry Hagman – è morto per un improvviso malore. È come se Berlusconi non si rendesse più conto di essere diventato ridicolo, sgradevole, certo, ma non più pericoloso. Si è chiuso un ciclo epocale dentro cui persino l’operazione berlusconiana nostalgico-vintage ha perso qualsiasi significato: il viagra del tramonto non contiene dramma, ma solo elementi di farsa. Ecco, tra il Cavaliere che postulava la sua indispensabile necessità, e quello che a Milanello ieri ha motivato con la parola «disperazione» la sua discesa in campo è racchiuso lo spazio di un crepuscolo. Per il Berlusconi che avevamo imparato a conoscere la «disperazione» era una parola proibita. Così questa invocazione disperata della necessità di se stesso, è oggi la malinconia di un finale grottesco in cui il protagonista indiscusso della storia politica italiana di questi anni non riesce a dire addio alla scena. Berlusconi, al tempo in cui era ancora Berlusconi aveva distillato un codice, un credo, un dottrina, e persino una estetica, che non poteva essere negata nemmeno da coloro che la consideravano ripugnante. C’erano in questo codice la lingua dell’ottimismo pubblicitario, lo slogan archetipo del “Nuovo miracolo italiano”, i cieli azzurrini, il kit del candidato del 1994. C’era la mitologia degli spot in cui si gridava «Fatto!»(erano le realizzazioni del governo), e poi il milione di posti di lavoro, il «più pensioni per tutti» (finito con il voto dei deputati del Pdl alla riforma Fornero) e poi quella della nave, e poi quella del credo laico recitato dal coro delle voci bianche, il mito del partito di plastica che diventava di massa, l ’abolizione dell’Ici che si è virata nell ’introduzione dell’Imu. C’era il carisma che ispirò a Andrea De Carlo un libro premonitore, in cui il Silvio Berlusconi di Canale 5 diventava il seducente «Macno», miliardario televisivo capace di conquistare la politica. C’erano i sondaggi di Gianni Pilo, in cui i consensi progredivano con la celerità dei funghi, c’era l’apparato propagandistico dei pronunciamenti delle stars della rete, che da Ambra a Sandra e Raimondo si schieravano per Berlusconi. E c’era persino la chiamata delle armi per l ’informazione, che produceva il passaggio più traumatico della vita di Indro Montanelli, con quel coup de téâthre che passò alla storia come il discorso del bastone» con cui il direttore de «Il Giornale» veniva sfiduciato nella sua stessa redazione dopo un invito perentorio ad allinearsi o ad andarsene. «La sera andavamo ad Arcore», scriveva Federico Orlando, ex vice di Montanelli in un libro in cui descriveva quella temperie e che ora ha quotazione antiquarie. Giuseppe Fiori chiamava Berlusconi «il grande venditore», in una biografia ostile ma rispettosa, Gigi Moncalvo – un tempo agiografo – lo dipingeva «In concert», come una rock star collezionando come un moderno vangelo, i suoi discorsi davanti ai venditori di Publitalia. Anche adesso i direttori vengono convocati ad Arcore ma Mediaset è una televisione in cui l’informazione politica è sterilizzata, o così liberamente populistizzata dai talk di Paolo Del Debbio, da sparare contro «i mostri» del Pdl, o virata di una coloritura anglosassone con l’isola felice di Tgcom 24, dove Antonio Di Pietro viene intervistato senza problemi e può gridare tutti gli insulti che vuole contro il Cavaliere.Adesso le stars di rete non direbbero mai, come fu costretta a fare l ’Ambra del 1994 che Occhetto o Bersani sono «il diavoletto». Adesso nessuno andrebbe in giro con il kit di Forza Italia senza sapere di poter incorrere in un linciaggio. E oggi le lacrime con cui Guido Crosetto abbandona gli studi di Omnibus dovrebbero essere la più disarmante dichiarazione di resa, un danno irreversibile di immagine. Lo spazio di consenso del berlusconismo, semplicemente, non esiste più. Non ci sono più i sorrisi, l’ultima nave su cui il Cavaliere è sbarcato era deserta, i bagni di folla non sono possibili per motivi di sicurezza, persino le Olgettine gli hanno voltato la schiena, e il gioco di specchi con cui il Berlusconi di ieri dice di non aver trovato un «Berlusconi del 1994» è la più grande dichiarazione di resa che si possa immaginare.Non c’è più la spilletta «acchiappagonzi», che colpì l ’immaginazione di Enrico Deaglio, non c’è più nemmeno il sorriso che sfavillava e seduceva, persino la certosa è in vendita. Il Berlusconi che ci siano abituati a vedere è quello che appare di tanto in tanto con il suo viso strinato, le sopracciglia torve, quello che non sorride più ma digrigna, che ha delle sopracciglia luciferine e vagamente torve. È uno che meno si fa vedere meglio è. Il Berlusconi di oggi è quello che ha paura di sottoporsi al rito delle primarie perché sa che oggi potrebbe perderle, e che è stato tradito da tutti, o quasi tutti quelli che lo adulavano. Questo Berlusconi è quello che dice di correre per vincere ed è invece quasi sicuro di arrivare terzo. Il suo volto granuloso è l’immagine che ricordiamo impastata con la tappezzeria damascata di villa Gernetto, quel giorno in cui con la voce spezzata dal fiatone gridava la sua impotenza e la sua disfatta. non è più«l’unto del Signore»: ma, tutt’al più, il bisunto di se stesso. Amen.
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