di LUCA TELESE
Che cosa ci dice questo voto del ballottaggio delle primarie? Che chi ha cuore quel complicato nodo di valori e idee che ci ostiniamo a chiamare sinistra, deve cominciare a ricostruire, in vista delle elezioni: deve porsi il problema di riempire di contenuti la meravigliosa cornice che è stata disegnata, con un rito democratico, da tre milioni di persone.Ma deve sapere che questa cornice ancora non basta per vincere. Questo ballottaggio ci dice che il nuovo centrosinistra di cui questo paese ha bisogno, in campo non c’è ancora: non solo nella politica, nel gioco dei candidati e nei suoi riti, ma nella società, nel senso comune, nel sentimento che attraversa le classi dirigenti. In questo dibattito sono mancate le grandi storie della crisi, le facce dell’Italia che sta soffrendo, i temi cruciali, i diritti civili, le risposte che bisogna dare, prima di tutto sul piano economico, per non fare la fine della Spagna e della Grecia. Bisogna passare da Papa Giovanni ai pantaloni rosa, dal tema degli impossibilitati a votare a quello degli esodati e degli scongiunti, chiedersi come ricostruire la scuola demolita a colpi di emendamenti di bilancio, come combattere l’assenza di credito che sta strangolando le imprese.Fino ad oggi Bersani ha dato l’idea di voler correggere gli orrori previdenziali e giuslavoristici del governo Monti. Ma non ci ha ancora spiegato come: ha incassato un voto sulla fiducia, una cambiale in bianco che dovrà onorare non solo dicendo, ma anche facendo «qualcosa di sinistra». Riavvolgete il film di questi ultimi giorni. Si è discusso moltissimo di «rottamazione», ma poco o pochissimo di contenuti, di soluzioni concrete. Le fiammate di passione e di ira, le infinite dispute sui regolamenti, gli inviti a prendere birre e caffè, le denunce di brogli hanno oscurato il vero confronto sui contenuti.Ci siamo ritrovati davanti due scatole molto ben differenziate dal punto di vista del marketing e della confezione, ma due mesi di campagna elettorale non ci hanno fatto capire bene cosa ci sia dentro queste confezioni per quel che riguarda le ricette su economia, sviluppo, istruzione, lavoro e informazione. È un paradosso con cui bisognerà fare i conti. È emerso che anche dentro il popolo del centrosinistra c’è un malessere profondo contro le sue classi dirigenti. Il successo innegabile di Renzi nasce dalla capacità di convogliare sulla propria figura questo sentimento. Ma non risolve il problema, e non disinnesca ancora le ragioni di quella rabbia . Se ci si libera dell’effetto illusionistico della divaricazione apparente tra vecchio e nuovo, infatti, il ballottaggio tra Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi è stato una sfida tra due visioni politiche tutt’altro che inedite, in parte ossidate dagli anni e dalle stagioni passate. Da un lato la versione nostrana della socialdemocrazia di governo (senza grilli per la testa), e dall’altro la versione nostrana del blairismo (senza più ancoraggi sociali, e con un occhio all’eredità simbolico-comunicativa del berlusconismo): di nuovo entambe queste due ricette hanno poco o nulla. Se uno pensa alla prima ipotesi non può che preferire Schröder o Jospin a Bersani. Se pensa alla seconda non possono che sembrare più convincenti Clinton o Blair di Renzi. Non è un caso che entrambi i candidati che si sono sfidati ieri avessero il loro tallone d’Achille nel nome che hanno pronunciato poco o pochissimo in questo duello: quello di Mario Monti: progettano grandi e ambiziose palingensi, ma sembrano avere difficoltà ad emanciparsi dal commissariamento che i tecnici hanno esercitato sulla politica italiana. Giorni fa ho scritto che Bersani vorrebbe rottamare l ’agenda di Monti avendo l’ambizione di tenere nell ’organico il suo creatore (così come si tengono i leoni ammaestrati nei circhi), e che per paradosso Renzi voleva rottamare il suo creatore, tenendo però nel proprio programma l’agenda Monti. Eppure, sia nel primo caso, che nell ’altro, sia Renzi che Bersani non riescono ad esprimere chiaramente una idea di governo alternativo a quella del rigore senza sviluppo a cui Monti ci ha abituato, e alla dittatura delle tasse e dei tagli che viene spacciata come una via ineluttabile… Certo, il leader del Pd ha detto più volte che l’era dei tecnici si è chiusa. E il fallimento (salvo tiri mancini dell’ultimo momento) della riforma che puntava a sostituire lo scandalo del Porcellum con la vergogna dell ’ultra-Porcellum lo rafforza nel suo disegno tattico. Quello – cioè di provare a conquistare il 55% dei seggi (e quindi il premio di maggioranza) puntando tutto sull’alleanza con Sinistra e libertà. Se però si dovesse trarre una lezione da queste primarie, non c’è dubbio che questo progetto – anche qualora funzionasse sul piano dei numeri – non basta sul piano politico. Il nuovo centrosinistra deve guardarsi intorno. Deve costruire un’al t r a gamba, civica e arancione. Deve approfittare della grande energia dimostrata da quell ’I t al i a che si è messa in fila, per coinvolgere nella sfida elettorale e fare il grande casting di 200 facce nuove: professionisti, giovani della legione straniera, imprenditori che rischiano e che non si fanno assistere. Che poi vuol dire trasformare questa festa democratica in un progetto di governo vincente.
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