di LUCA TELESE
Siamo amici dei poliziotti o degli antagonisti? A costo di deludere qualcuno lo dico: sono a favore delle forze dell’ordine, e proprio per questo anche delle misure esemplari (fino alla radiazione) per chi tra loro viola la legge. Sono ferocemente nemico di chi pratica la guerriglia urbana, e a favore di chi manifesta, e queste due cose sono tenute insieme da una logica ferrea. Semplice? Mica tanto.
Così devo raccontarvi che ieri ho letto con attenzione sul sito del nostro giornale ben 87 commenti al mio editoriale su “i 25 stronzi” che hanno avviato gli scontri al corteo di Roma con la loro sassaiola contro la polizia. Il 90% per cento di questi web-lettori ci dicevano che non compreranno più Pubblico, che io sono superficiale, o infame, o entrambe le cose, che difendo la Casta, che non so di cosa parlo, che non ho mai messo piede in un corteo in vita mia, che ho l’approssimazione di un semi-demente.
Mi farebbe piacere dire: avete ragione, io e chi la pensa come me siamo solo pazzi fascistoidi: blindatevi nelle vostre certezze, non c’è nessun problema, c’è la repressione che si accanisce contro gli inermi e noi siamo pagati dal Capitale per difendere gli sbirri.
Ovviamente non è così, sarebbe bello e tranquillizzante, forse persino per me. Eppure è un film addirittura opposto a quello che abbiamo scritto e raccontato su queste pagine. Che cos’è allora questo racconto scisso e vagamente allucinato? Perché in Italia tutto è piegato al senso della tifoseria, alla lettura univoca e monodimensionale, all’impossibilità di capire?
Diventa quasi divertente che nello stesso giorno, sulla prima pagina de Il Giornale, proprio Pubblico sia messo sotto accusa da Alessandro Sallusti: “La sinistra – scrive il Giornale – grida al pestaggio di poveri manifestanti inermi, ma non mostra le violenze dei giovani teppisti sui poliziotti”. Scrive ancora Sallusti: “Ieri Pubblico, quotidiano di sinistra diretto da Luca Telese, aveva in copertina la fotografia di un giovane manifestante, insanguinato sotto il titolo: ‘Giù le mani dai ragazzi’». Il titolo del Giornale, in polemica con noi era: «Quei bravi ragazzi», cubitale, sopra le foto di neoguerriglieri con volti coperti e sassi in mano.
Davvero ci sono due realtà così diverse, per cui agli occhi di qualcuno siamo amici degli sbirri che osano criticare i giovani ribelli, e agli occhi di altri (con la stessa prima pagina!) diventiamo filo-terroristi e corrivi dei violenti?
In realtà, per chi vuole, non dico condividere quel che abbiamo scritto, ma provare a capire, le cose stanno così. Questo editoriale corredava una pagina in cui abbiamo (giustamente) denunciato le violenze dei celerini, e lo abbiamo fatto subito, senza esitazioni, perché avevamo visto le manganellate contro tanti studenti inermi, pacifici, assolutamente incolpevoli di quel che si è abbattuto sulle loro teste.
Lo ha racontato la nostra cronista, Mariagrazia Gerina, ancora prima che le prove fotografiche costringessero il ministro Cancellieri a chiedere scusa e promettere punizioni esemplari per i colpevoli. Lo abbiamo scritto perché anche Mariagrazia ci ha portato le sue foto degli scontri e degli studenti identificati sul ponte di Testaccio, senza che avessero fatto nulla.
Ma ho sentito il bisogno di denunciare «gli stronzi» perché era stata una sassaiola a freddo ad avviare le cariche. Quel giorno il corteo l’ho traversato pure io. Ed ero (purtroppo) in strada, anche nelle ultime tre date in cui nella capitale si sono celebrati scontri. Ero intossicato dai lacrimogeni a via del Corso, a dicembre, con i ragazzi arrestati a un metro dalla troupe di Current e la polizia che ci barrava la telecamera. Vedrò male, forse: ma con i miei occhi. E ho ovviamente visto – il 14 ottobre – i giovani black bloc , al fianco dei più esperti, e a esponenti dell’area antagonista, scatenare l’inferno a via Labicana, non contro la polizia, ma addirittura contro i manifestanti. Persino contro i Cobas (Ho visto cose che voi umani: i celerini caricare per difendere Piero Bernocchi).
So che qualcuno, in linea con le teorie cospirative che sono un altro alibi seriale di una parte dei «negazionisti» continua a sostenere: i black bloc non esistono, sono solo «infiltrati».
Ovviamente non è così, come sa chiunque conosca la storia dei movimenti, prendendo atto della realtà e senza credere alle balle. Sulla violenza di piazza – come è noto – si sono scritte, in diverse epoche, intere enciclopedie. Anche oggi, molti l’antagonismo armato lo teorizzano, alcuni lo auspicano, certi lo negano, tantissimi lo sopportano. Spesso prende corpo a sinistra questo strano sentimento negazionista: delle violenze si può parlare tra compagni, ma non in pubblico.
A via Labicana, dove gli strateghi dell’antagonismo avevano disseminato il percorso di guerra di pali divelti e depositi di materiali contundenti da tirare il giorno dopo, furono bruciate macchine, un paio di caserme abbandonate, persino abitazioni civili. Una signora novantenne e dei suoi vicini, scambiati per obiettivi militari, in realtà abitavano alloggi riservati al personale non militare dell’ospedale Celio. La signora si salvò saltando un balcone. Questo per dire perché mi sembravano dementi – «stronzi» – quel gruppo di guerriglieri che tempestavano un vecchio palazzo ornato da una targa «Ministero della Difesa», senza sapere che di militare in quel palazzo c’era solo un vecchio marmo.
Dopo gli scontri, in cui ero rimasto incastrato sono volato a Torino, a parlare con i ragazzi del centro sociale Askatasuna, che pur non avendo avviato gli scontri, rivendicavano con orgoglio il successo della “Battaglia di San Giovanni”. Volevo capire. Ho discusso un pomeriggio con loro, li ho trasmessi su La7, non mi hanno con- vinto. Dicevano: «Una generazione è insorta dietro di noi, e questo ha lanciato un messaggio al paese».
La mia idea me la sono fatta in trent’anni di piazza: chi gioca a fare il guerrigliero, o finisce arruolato suo malgrado dalle falangi, o drammaticamente pensa che sia l’unica via per gridare esprimere rabbia generazionale, sempre finisce con lo stabilizzare il sistema che odia. La prova più lampante? Dopo il 15 ottobre, avrebbe dovuto sfilare a Roma la Fiom. Il corteo, come è noto, fu proibito, tra gli applausi dei cittadini, felici per l’unica (forse) ordinanza liberticida di Gianni Alemanno gradita dai romani.
Chi tira biglie stabilizza il sistema. Ma soprattutto cancella il diritto di chi vuole manifestare, lo oscura: a Roma il 16 ottobre ero all’Umberto I a visitare Enzo Mastrobuoni, il militante di Sel a cui erano state ricucite (per miracolo) quattro dita di una mano dilaniate da un petardo. Enzo, sindacalista esperto, – da vecchio militante – non riusciva a capire l’odio che aveva letto negli occhi di quei ragazzi, anche contro di lui.
Da allora penso a questi incappucciati come a degli «stronzi». Si illudono di uscire da una cultura minoritaria con una jacquerie, non hanno nemmeno l’ideologia dei loro fratelli maggiori che hanno fatto il ‘77, non hanno strategia. Non fanno violenza ai poliziotti ma ai loro compagni. Vivono l’insurrezionalismo come un surrogato identitario. Il che non li rende meno pericolosi, anzi.
Attraggono con la divisa seducente della bardatura di guerra e dell’incappucciamento mistico qualche poveretto. Gente come «Er Pelliccia», che seguendo i pifferai è finito in cella. Non sono partigiani, come sognano, non sono eroi, come pensano, e non sono nemmeno demoni come vengono dipinti. Sono un vuoto che pensa di poter dare una risposta al disagio. E che diventa un problema per chi il sistema lo contesta davvero.
Rispondi