di LUCA TELESE
C’è una bomba innescata che potrebbe esplodere sabato. C’è una miccia a combustione veloce che potrebbe far detonare gli equilibri del Pd con l’Assemblea nazionale che deve votare le nuove regole delle prima- rie proposte dagli uomini di Pierluigi Bersani. Ieri bastava ascoltare le parole di Walter Veltroni, uno dei politici più accorti e parchi nel centrosinistra (soprattutto nel controllo delle proprie esternazioni) per rendersi conto che si sta per superare un livello di guardia. Ieri l’ex candidato premier, presentando il libro di uno dei dirigenti più vicini, Giorgio Tonini, non aveva velato i suoi timori: «La mia angoscia – diceva – è che, sottoposto a tensioni estreme, il partito possa spaccarsi». Non solo: «Le primarie sono un passaggio delicato, che va gestito bene, perché rischiano di distruggere». Parole pesanti come macigni. Che rimandano a quella riunione per le regole dove, sabato mattina, si fronteggeranno due spinte divergenti. Ci sono due destini in gioco in un unico voto, e sono appesi al braccio di ferro fra la maggioranza che fa capo a Bersani e tutti coloro, che per motivi diversi e con storie diverse, fanno resistenza passiva, o sono in lotta contro di lui. Eppure anche il segretario ha lanciato una sfida e sta rischiando molto: il dispositivo che ha immaginato per le primarie (che contiene punti molto restrittivi sul piano della partecipazione degli elettori, sui criteri dell’inclusione- esclusione dei candidati, sul quorum di firme necessario o meno per accedere alla sfida), per poter essere approvato ha bisogno infatti del voto di almeno il 50 per cento più uno degli aventi diritto nell’assemblea nazionale. Questo vuol dire che, quasi automaticamente, il voto di sabato diventa un referendum nel gruppo dirigente, un voto di fiducia pro o contro il segretario. Una volta superato questo scoglio, Bersani dovrà scegliere se, come e quando avviare la sua campagna per le primarie. I suoi fedelissimi annunciano ufficiosamente che dovrebbe accendere i motori il 15 ottobre, e che l’attendismo di queste ore rientri in una tattica calcolata. Eppure prima c’è lo scoglio di quel voto sulle regole: chi prova a capire la partita politica e la posta in gioco, deve avere in mente un precedente clamoroso. Quando nel 1991, al Congresso di Rimini, nacque il Pds, il segretario designato, Achille Occhetto non fu eletto, con una bocciatura sorprendente. A farlo fuori era stata proprio la mancanza di un quorum qualificato: «Adesso cercatevi un altro segretario!» disse lui furibondo, e si rifugiò a Capalbio. Di ragioni ne aveva. Anche in quel caso, infatti, si univano nel boicottaggio del voto, tutte le opposizioni al padre della Svolta. C’erano il No chiaro e dichiarato della sinistra ingraiana, il dissenso di quelli che Occhetto chiamava in tono sprezzante gli “oligarchi”, c’era la fronda dei dalemiani, e l’opposizione dei cosiddetti “miglioristi” di Napolitano (che si stavano staccando dalla maggioranza occhettiana). Oggi contro Bersani si catalizzano i malumori dei nuovi oligarchi, il dissenso dei minori tagliati fuori dalle clausole escludenti (sia «la sinistra» della Puppato che «la destra» dei renziani), e il mal di pancia diffuso in tutte le diverse anime centriste ben rappresentate dallo sfogo saturnino di Beppe Fioroni raccolto da Tommaso Labate. Non può sfuggire a nessuno, l’importanza decisiva di questa partita, non solo per i destini e i rapporti di forza interni nel Pd. Queste primarie, che solo dieci giorni fa sembravano un congresso di partito criptato, stanno diventando la prefigurazione non solo degli schieramenti in campo, ma anche dei possibili vincitori delle elezioni politiche. I forum che Pubblico ha raccolto in questi giorni fra i principali protagonisti del centrosinistra (il nostro viaggio continua giovedì con Bruno Tabacci), ci danno una percezione immediata di come il ticchettare di questa bomba stia cambiando la disposizione delle squadre in campo, la percezione stessa che i leader hanno della loro futura campagna elettorale. Provate a unire questi elementi. Due giorni fa Antonio Di Pietro ci ha rivelato, quasi con un tono di disarmante stupore, che – se la partita è quella che si sta prospettando – potrebbe giungere a una scelta clamorosa: «Visto che se vince Renzi non c’è più il centrosinistra – ci ha detto – a me farebbe piacere sostenere Vendola… Ma potrei essere costretto a votare Bersani». Oggi Oliviero Diliberto, su queste stesse pagine, fa un ragionamento altrettanto sorprendente, soprattutto considerando che viene da un leader della sinistra radicale: «Io ho il dovere di fare tutto quello che posso per propiziare la vittoria di Bersani su Renzi. Il primo, malgrado tutte le differenze che ci separano, si muove ancora nella storia del movimento operaio, mentre il secondo è portatore di un progetto di destra liberista che vede in Monti il suo modello». E qui si inserisce l’ultimo tassello: sabato pomeriggio, Nichi Vendola esordisce con la prima tappa della sua campagna per le primarie. Non è un mistero che la decisione di partecipare sia stata a lungo meditata, anche tenendo conto di possibili scenari e dei rapporti di forza che i sondaggi annunciavano tra Bersani e Renzi. Vendola – che resta un alleato, forse più fidato di alcuni suoi compagni di partito, per il segretario del Pd – si è ritagliato in queste primarie una mission: strappare al sindaco di Firenze i voti degli scontenti di sinistra che potrebbero spingerlo al sorpasso su Bersani. Chi vince le primarie, quindi, disegna già lo scenario delle politiche: con Bersani un centrosinistra rinnovato. Con Renzi un nuovo polo del tutto inedito, che fa saltare le vecchie distinzioni tra destra e sinistra. È per questo che sabato la bomba già innescata, se Bersani non ce la fa, può scoppiare. E se non scoppia potrebbe prefigurare un esito (una nuova maggioranza intorno al segretario) nella battaglia all’ ultimo sangue che si prepara.
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