di LUCA TELESE
Se vieni da fuori come me, per capire qualcosa di questa storia può servirti una passeggiata di nemmeno dieci minuti: traversare la città vecchia di Taranto da piazza Fontana al ponte girevole, entrare nel cuore antico e diroccato di una comunità che ha perso l’anima e sta cercando se stessa, senza ritrovarsi, sostare per qualche attimo nel turbine della crisi e nel buco nero di un presente sconnesso in cui passato e futuro si incontrano senza guardarsi negli occhi e senza mai darsi la mano. Se traversi Taranto vecchia, a piedi, tra i murales senza tempo, i muri scrostati, le case diroccate e i banchi dove in mezzo alla via si puliscono le cozze, in un rito di quartiere che pare una liturgia, se cammini per la via di Mezzo incontrando branchi di gatti randagi sfamati da un uomo senza etá, e ritrovandoti sopra la testa balconi per metá senza pavimento dove una signora tranquilla stende i panni cantando parole antiche, lo puoi già vedere, anche se nascosto in fotogrammi scomposti, l’alfabeto della rabbia che in queste ore si é combinato come una soluzione esplosiva nella guerra civile dell’Ilva. Questa é una città attraversata da una bellezza che ti colpisce al cuore malgrado la decadenza,questa é una splendida e misera città, che si declina nello stesso ossimoro con cui il friulano Pasolini raccontava il suo amore viscerale per Roma. Perché davvero Taranto oggi é splendida e misera come non é stata mai nella sua storia, ha perso se stessa, e riesce a ritrovarsi solo nella rabbia: siccome ha davanti agli occhi lo spettro della propria morte, questa cittá pensa di poter tornare a sentirsi viva solo nell’eccesso, quando le plebi degli arrabbiati, degli ultras e dei centri sociali si mescolano in un ruggito di disperazione che nel migliore dei casi significa: “Lo vedete, siamo ancora qui?”. Eppure Taranto, la stessa Taranto, é la città che si é paralizzata nell’isteria euforica di una promozione che in realtà era una truffa, un carnevale amarissimo inaugurato da una beffa gioiosa. Questa Taranto é la stessa Taranto che si divide in guelfi e ghibellini, intorno al dilemma se siameglio morire avvelenati o affamati, la stessa che, dopo aver taciuto troppo, ora parla troppo. Siccome la splendida e misera Taranto di queste ore é riuscita a ritornare, per una volta, un palcoscenico nazionale, oggi clown e disperati, pazzi e sognatori, intransigenti di sempre e compromessi di ieri, si sono affollati sulla scena, danzano sul palcoscenico rovente dell’Ilva una taranta forsennata e disperata. Se li guardi con il binocolo uno ad uno come si fa a teatro – questi attori – scopri non solo che nessuno é quello che dice, ma anche che nessuno riesce ad essere quello che vuole. La politica non dice nulla di sensato e comunque cambia idea, i sindacati si azzuffano, i magistrati squarciano meritoriamente drappi che nascondevano inferni sepolti, ma anche loro sembrano come marziani, atterrati da un’altra galassia nei giardini dell’Immacolata in astronave. La famiglia Riva, che in questi anni ha parlato la lingua dei padroni delle ferriere, che nell’etá dei veleni ha comprato consenso con il potere, rischia oggi di dover pagare per tutti i suoi peccati, e tutti in una volta sola. Rischia di dover dividere il conto di questa pena con i suoi stessi operai, con una intera città. Se traversi questa splendida e misera cittá immaginandoti che la via di Mezzo sia la sua spina dorsale, per un attimo puoi immaginarti un futuro diverso, quello in cui questo corpo pieno di cicatrici e medaglie si rimette in piedi, quello dove la capitale bombardata può trasformarsi in un presepe senza tempo. Se fai questo sogno ad occhi aperti, capisci che per ritrovare se stessa Taranto deve far scendere gli attori dal palco, e abbandonare tutte le culture dell’integralismo e della rabbia, quelle che in modo esattamente speculare, si illudono di risolvere problemi complessi con un sì o con un no. L’unica cosa che non si può fare é negare la fabbrica. L’unica cosa impossibile é rimuovere l’Ilva. Perché nei vicoli di Taranto il futuro e il passato possano tornare a darsi la mano, non si può prescindere dall’acciaio.
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