di LUCA TELESE
“Io sono figlio dell’acciaio e orfano dell’acciaio. Mio padre, Nicola, capo dei tubifici, é morto di tumore fulminante. Non é difficile immaginare perché. Ma adesso non ho dubbi: chiudere l’Ilva significa uccidere una città“.
Conosco Angelo Mellone da anni. Giornalista di destra, saggista, polemista. Ogni volta che si parlava di Taranto, con lui, lo si poteva osservare mentre cambiava espressione e umore, campione del “Pride tarantino”, biografo e apologeta di una città abbandonata – fino a tre giorni fa – da tutti i media che adesso denunciano, strillando, l’insostenibilità ambientale dell’Ilva. Seguire il suo racconto, oggi, significa immergersi nella complessità di un dramma da cui non si esce con gli slogan. Con Angelo ci chiediamo: “Ma se l’acciaieria era insostenibile, come tutti i quotidiani scrivono, loro dove erano fino a ieri?“. Ad Angelo, come a me (e veniamo da culture politiche opposte) l’ultimatum dei giudici – e il dibattito che ne é nato, a tratti sembra insostenibilmente astratto, ideologico.
Mellone ha scritto un’orazione civile che parla della sua città, “Addio al sud“, uscita a febbraio – in tempi non sospetti – per la casa editrice Irradiazioni. Un monologo profetico, a rileggerlo adesso. Quando Taranto e le sue morti per i quotidiani nazionali non esistevano, Mellone raccontava la storia della cittá come metafora del meridione e del suo possibile tracollo. Taranto, racconta Angelo, é l’unica città del sud di immigrazione, l’unica città meticcia, una città che si spopola con la crisi industriale, una città che in venti anni ha perso 35mila abitanti: “Sta scappando tutta la futura classe dirigente. Se chiude l’Ilva l’unico destino possibile é diventare la prima ghost town italiana“.
Partiamo dalla sentenza dei giudici. Che ne pensi?
Trovo che sia motore e frutto di un incredibile effetto di illusione collettiva: l’idea che nessuno si ponga il problema di cosa accadrà dopo mi fa impazzire.
Sei categorico.Spiega meglio.
Semplice: Non esiste nessun piano di industrializzazione, nulla. Chi dice “Vivremo delle bonifiche” é folle o illuso o in malafede. Se chiude la fabbrica finisce tutto, basta saperlo. Se chiude, resteremo soli con i nostri veleni. Il giorno del tavolo al ministro non c’erano né Passera né la Fornero!
Ma andiamo! Taranto non ha futuro fuori dall’industria. Non esiste nessun ritorno possibile alle cozze e alle masserie. Balle. La città senza l’Ilva muore e basta.
Anche tu, peró, capisci la rabbia di chi dice: “Chiudiamo”.
Meglio di chiunque altro. I tarantini hanno prestato la loro salute la loro carne all’Italia. Un sacrificio enorme. Ma tornare indietro non si può.
Perché?
Ma davvero qualcuno pensa che domani possiamo andare a coltivare gli orti o a lavorare nel turismo? No, ovvio. Eppure parte il ricatto.
Quale?
Se dici “Difendiamo il lavoro” ti spiegano che sei insensibile alle morti di tumore. Io ho già pagato il mio prezzo. Tutte le famiglie qui hanno un morto da piangere. Ma se l’Ilva chiude avremo tre vivi da piangere, perché senza lavoro c’é una condanna altrettanto sicura. L’unica industria che potrebbe prosperare sarebbe il crimine.
Tu vorresti riconoscenza, per la tua città…
Abbiamo pagato un prezzo per l’Italia intera. Per dire: la Basilicata felix e il Salento sono potuti esistere solo grazie a quelli che Walter Tobagi chiamava “metalmezzadri”. Operai in settimana, contadini nel week end, distribuendo ricchezza in tutti i Sud.
Nessuno calcola, poi, che chiuderebbe anche Fincantieri a Genova.
Certo, scorciatoie non ce ne sono. Abbiamo il dovere di provare a costruire una siderurgia pulita. La più pulita possibile, ma pur sempre siderurgia. Taranto grazie all’Italsider aveva il reddito più alto di tutto il centrosud.
E a chi denuncia le emissioni, i decessi e le patologie tumorali che dici?
La cosa folle é che le emissioni di diossina – dopo le leggi regionali di questi anni – non sono mai state così basse.
Hai scritto un bellissimo articolo, su Libero, ma non hai raccontato della morte di tuo padre.
Il lutto di un bambino che perde un genitore a 14 anni, non può essere speso per sostenere una tesi. Ma se me lo chiedi non posso non raccontartelo. Ricordo che un operaio gli fece l’altare in un capannone con gli scarti dei materiali ferrosi. Ricordo una distesa di caschetti bianchi, gialli e rossi al funerale. Poi io e mamma siamo rimasti con i nostri dubbi angosciosi.
Del tipo?
Era l’1986. Mio padre era stato anche vicino a Chernobyl. Lo aveva ucciso il cantiere o la nube? Forse entrambi. A casa mia venivano russi, americani e Giapponesi. Tutto il mondo sbarcava a Taranto a studiare come si faceva quell’acciaio.
Perché lo ricordi?
Perché dietro le grida degli ecologisti dell’ultima ora c’é anche la follia di chi azzera mezzo secolo di storia con un imperativo emotivo insopportabile.
Come ve la siete cavata voi due?
Mia madre aveva 36 anni, rinunció alla causa di lavoro per poter essere risarcita dall’azienda. Siamo rimasti solo io e lei con la liquidazione dell’Italsider
Che famiglia eravate?
Tarantini doc. Ovcero meticci. Io pugliese, mio padre mezzo Tarantino, mia nonna algherese, l’altro nonno genovese: tutti figli del mare e dell’acciaio.
Non c’era la consapevolezza del rischio ecologico all’epoca?
Mio nonna, maestra, insegnava al rione Tamburi all’epoca era già tutto rosso di polvere: anche lei è morta prematuramente di tumore. Mio padre, per puro caso, é sepolto in un punto del cimitero attaccato allo stabilimento. Una tomba con vista sull’Ilva. Un simbolo involontario, dunque più potente.
Porterai la tua orazione civile a Taranto?
La faccio l’8 agosto, in un capannone della città vecchia. Sono certo che susciterà polemiche. Anzi, lo spero.
Dicono: come si fa a ignorare i rischi che corrono i bambini oggi?
Sai, sono stato bambino in quella Taranto, se c’é uno che non ignora sono io. Queste tirate le lascio a Bonelli, che Viene da Ostia e torna a dormire a Roma. Ma l’avrei persino votato per porre la questione a livello nazionale.
Cioè?
Non so se se io e i miei compagni di pallone moriremo tutti di tumore a quarant’anni. É un pensiero che ti batte in testa, ogni giorno, soprattutto quando diventi padre.
E come convivi con questo sentimento?
Come la maggior parte dei tarantini. La nostra convivenza con la paura é un costo sociale che abbiamo pagato alla speranza di futuro del sud. Non posso accettare prediche.
Racconta…
Sono cresciuto giocando alla Egidio Giusti con la polvere rossa, e – secondo quello che dice l’Arpa, in una città dieci volte più inquinata di quella di oggi. Sono convinto che sia vero il nesso tra le morti tumorali e l’acciaio. Ma non é un controsenso chiudere tutto proprio quando si migliora abbattendo le polveri?
Temi l’accusa di “fare gli interessi dell’Ilva?”
É il meccanismo di ricatto più indegno, fra quelli innescati nel dibattito di oggi. Così come quello di chi toglie dignità agli operai che rischiano due volte, trattandoli come dei crumiri.
Che pensi dei Riva?
Sono stati insensibili, chiusi, spesso dando la sensazione di arrivare in questa città con una mentalità coloniale, padroni delle ferriere. Io non difendo una ditta, ma l’anima di una città. Polveri o no, bisogna sapere che senza la nostra storia saremmo lo stesso tutti morti.
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