di LUCA TELESE
Venerdì sono volato a Lecce a ritirare un premio, il meno blasonato e il più bello dei premi che abbia mai ricevuto, quello dedicato a Maurizio Rampino, cronista di razza della Gazzetta del Mezzogiorno, scomparso sei anni fa per un infarto, a 43 anni. Quello che ho imparato da questo viaggio merita di essere raccontato in questo sito, perché ha a che vedere con le radici profonde di questo mestiere, con il giornale che dobbiamo fare, con i valori e i destini di tutti noi.
Il premio che mi hanno dato, intanto, era “Alla carriera”. Il che per me era giá un segnale premonitore. “Che cosa ne pensi?”, mi ha chiesto Pierpaolo Lala il giovane collega che conduceva con piglio impeccabile la serata. Ho risposto così: “O che la fondazione di Pubblico per voi é la cosa più importante che io abbia provato a fare in vita mia, oppure vuol dire che considerate le dimissioni dal Fatto la fine del mio percorso professionale”. Per fortuna hanno riso.
Ho ritrovato in quella sala di Trepuzzi colleghi che ho conosciuto in questi anni sul campo, come Antonella Lippo, e – per dire – i genitori (salentini) di Federico Mello, firma di questo giornale. Ho conosciuto fior di professionisti (quanti talenti e quanta passione nei giornali locali!), e ho simpaticamente litigato in macchina con un’altra collega – Daniela Pastore – che ha difeso con passione l’ordine dei giornalisti (beata lei che ci crede). Ma poi, ed é questo che voglio raccontarvi, ho incontrato lo spirito di Maurizio: vivo negli occhi e nei ricordi di tutti, vivo e potente, proiettato su di me con una forza tale da infrangere qualsiasi immaginetta retorica: “Era un anticonformista”, “Era incapace di qualsiasi compromesso”, “Era uno che non guardava in faccia a nessuno”, “Era un formidabile rompicoglioni, ma di quelli che poi ti accorgi che hanno ragione”, “Senza di lui ci siamo spenti”. Maurizio aveva iniziato facendo politica a scuola in Lotta Continua, come Peppino impastato, Maurizio avrebbe oggi mezzo secolo, Maurizio era – come alcuni migliori talenti di questo paese – un precario. Faceva il cronista da Trepuzzi, aveva un figlio piccolo – Gianluca – era spesso angosciato dall’idea di come sbarcare il lunario.
Ho provato a farmi raccontare da sua moglie Antonella la sua storia. Lo shock di entrare in una stanza e trovarlo morto. La passione per la cronaca, l’entusiasmo degli esordi, “Quando dettava pezzi su pezzi dal telefono prima dell’era dei computer”. Dice Antonella: “Era burrascoso: o lo amavi o lo odiavi”. E aggiunge: “Pensa che io ho scoperto solo dopo la sua morte quando la gente lo amasse”. I primi anni in cui si é ritrovata sola li ricorda come “Terribili”. Anni di lutto che non si risolve e non si spiega, anni in cui diceva a Gianluca: “Papá non c’é più. Piangiamo tutto quello che si deve, ma ad un patto: poi chiudiamo sempre con un sorriso”. É stata la loro regola segreta per attraversare il dolore. “Lui era ancora all’asilo – aggiunge Antonella – prima di capire cos’é la morte del padre, ha dovuto imparare cos’é la morte”. Adesso vedo Gianluca, un bambino di dieci anni bellissimo che vuole assistere alla cerimonia in prima fila e mi pare un bambino solare: “Sai – mi annuncia – io scrivo favole”.
L’ultima domanda mi pesa. C’erano stati segnali premonitori? Antonella prende un respiro lungo: “Aveva avuto un malore. E dei dolori che deve avermi tenuto nascosto, perché non voleva fermarsi”.
Parla il sindaco Oronzo Valsano, che lo ha conosciuto da cronista: “Era bravo rigoroso puntuale: soprattutto libero. Andava controcorrente, ed era molto scomodo”. E ancora: “Le critiche più forti le riservava alle amministrazioni che gli erano vicine, quelle di sinistra”. E poi “Ricordo con quale passione aveva fatto una battaglia giornalistica per il costone panoramico contro la speculazione”. Peró, intanto, malgrado tutti i progetti, il costone é ancora lì, un frammento terminale di Appennino che si tuffa nel mare.
In sala c’é Angelo Sabia, il suo capocronista, che aveva idee diverse dalle sue, che più volte si commuove, e che quelle battaglie “ambientaliste” le ha fatte insieme a lui. Perché questo mestiere divide, ma a volte, per fortuna, affratella i contrari. Poi c’é Valeria Sollazzo, che rappresenta l’associazione amici di Maurizio: passano gli anni, ma loro sono sempre lí. Alla fine parla Nando Popu, istrionico guru dei Sud Sound System, amico di una giovinezza di Maurizio, che cesella un ritratto anti-rituale e bellissimo. Ha raccontato Rampino in un romanzo pubblicato da Laterza – Salento fuoco e fumo – e dice: “Ricordo le litigate infinite, mentre scriveva, con la O della Olivetti scassata che bucava il foglio”. Oppure “Ricordo La sua lotta ai luoghi comuni, tutti. Ricordo quando da ragazzino mi portava davanti alla centrale di Cerano, che lui aveva ribattezzato Cerano-byl”. Nando prosegue, fra applausi e lacrime: “Il Salento di quegli anni era tutto mafia ed eroina. Abbiamo iniziato a cantare per poter fuggire via”. E ancora: “Salento fa rima con cemento e inquinamento”. Che ritratto potente per me. É bello che questo premio lo abbiano vinto due cronisti precari siciliani di Repubblica Palermo – Valeria Ferrante e Lorenzo Tondo – per una inchiesta sull’influenza della mafia nell’agricoltura biologica. É bello che Nunzio Pacella, premiato per la sezione fotografia, faccia ridere tutti: “Scusate, ma io con i mille euro mi ci compro subito un’altra macchinetta!”. A proposito: io ho ricevuto un premio ancora più bello: “Un metro cubo di Salento” in prodotti tipici. Appena arriva il pacco, lo spolperemo in redazione, pensando a Maurizio. Rileggo la bella cronaca di Dario Quarta sulla Gazzetta, che mi manda Gloria Indennitate. Anche Gloria era amica di Maurizio. Sarebbe voluta venir anche lei, ma qualcuno le pagine le deve pur chiudere. Siamo come i medici che fanno le guardie, come i pompieri sempre in servizio.
C’i sono due piccole-grandi lezioni che mi restano dentro dopo questo bombardamento di emozioni: saper andare controvento senza mai diventare marginali. E saper trasmettere passioni senza preoccuparsi di apparenze e tornaconti. Perché é questo il seme che Maurizio ci lascia, per Pubblico. Insieme a quel bel costone panoramico ancora non edificato, che chiude un frammento della storia dell’Appennino – come mi fa notare Angelo – nel mare del Salento. Una immagine bellissima, una metafora. Lo racconteremmo sul nostro giornale, con lo spazio che si riserva di solito ai leader, Maurizio Rampino: “Solo un giornalista”, come diceva di se Indro Montanelli, che poi per noi é il complimento più bello che si possa ricevere.
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