di LUCA TELESE
Dal premier serafico al premier cupo, dal Super Mario radioso beatificato dai giornali, a quello affaticato e cauto che domenica ad Arezzo diceva di sentirsi – che tenero – “una piccola rondine” e parlava di fronte a una sala semideserta. The times they are a-changin’, cantava Bob Dylan e i tempi cambiano anche per lui, per giunta in modo terribilmente veloce. In questo sconquasso le elezioni in Europa stanno pesando sul governo dei tecnici e sulle sue aspettative di vita quasi più di quelle italiane. Cosí, per meglio capire cosa separi queste due istantanee del premier è il caso di interrogarsi su cosa sia accaduto in questi cinque lunghi mesi. Ve lo ricordate il giorno del passaggio di consegne? LE PASSEGGIATE e i bagni di folla davanti a Palazzo Chigi? Ricordate il sorriso radioso di Mario Monti di fronte al volto incupito di Silvio Berlusconi, il cenno solenne mentre scuoteva il campanellino d’argento con un rintocco che sembrava annunciare un passaggio epocale? Avete idea di come riposasse in modo staticamente impeccabile il suo ciuffo cotonato bianco nei giorni del loden e dei trolley? E potete quasi sentire l’eco delle battute a raffica, pronunciate ancora spensieratamente, alla conferenza stampa di fine anno. Era l’invenzione di un codice, di uno stile, nello scenario austero della sala polifunzionale della presidenza del Consiglio alla Galleria Colonna, che con i suoi legni scuri, i suoi marmi, e la sua aria da istituto di magia saltata fuori da un libro di Harry Potter, era stata la vera scoperta della portavoce Betty Olivi: “Appena l’abbiamo vista, quella sala, abbiamo capito che era ciò che ci serviva”. Già: il modo per chiudere, anche iconograficamente l’era berlusconiana. Quel refettorio austero fu il teatro dell’austerità, delle lacrime forneriane, delle riforme previdenziali e lavorative, degli schiaffi aggiustati ai sindacati e ai modelli concertativi. E Il professore era in quei giorni il primo ministro dello “Humour Monti”, un modello di stile. Dispensava freddure che magari capiva solo lui, ma di cui si divertiva molto: “Presidente, ma è vero che avete fatto un vertice nel tunnel?”. Sorriso angelico: “La ringrazio dell’ottimo interrogativo: anche questo quesito dimostra quanto possono essere profonde le domande di voi giornalisti”. E che dire della spietatezza e del distacco olimpico che lo facevano sembrare così alieno e diverso dai “politici”? Monti approfittava delle conferenze stampa per dispensare messaggi in codice, ad esempio agli economisti che lo criticavano dalle colonne del Corriere della Sera, come Alberto Alesina e Francesco Giavazzi: “Come sottolineano i due colleghi economisti di cui ora non ricordo… Non trovo il ritaglio stampa”. Li spazzolava ferocemente, insomma, con il codice spietato dell’Accademia, che declassa gli avversari sgraditi, derubricandoli ad anonimi senza nome. Fa una certa impressione verificare che, solo cinque mesi dopo, l’anonimo e dimenticato Giavazzi è stato arruolato a Palazzo Chigi come “tecnico dei tecnici”, con il piacevole effetto collaterale di riportare nel cuore del governo uno dei suoi principali critici. Bacia la mano che non puoi tagliare, e il montismo si è virato in andreottismo. COSÌ COME il discorso di domenica, preoccupato ed ecumenico: “Il presente è segnato da una crisi economica che però se non è affrontata con convinzione e con coraggio può diventare una crisi di parole”. Lo stesso premier solo pochi giorni fa diceva: “Non dobbiamo stupirci che l’Europa abbia bisogno di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono cessioni di sovranità nazionale a un livello comunitario”. E invece, adesso, Monti dice “che bisogna uscire dalla crisi insieme”, e passa dalle battute improvvisate ai discorsi letti su carta. La verità è che in queste ultime due settimane il premier ha dovuto improvvisare un precipitoso cambio di copione: in Italia era il rigorista implacabile che si prepara a fare da becchino dei partiti e da successore al Quirinale. In Europa era l’alleato della Merkel che autentificava orgogliosamente il suo pedigree: “Sono stato considerato il più tedesco degli economisti italiani”. Era il poliziotto buono nella squadra del poliziotto cattivo, quello che chiede il rigore, ma anche la clemenza. E adesso rischia di diventare come il sodale delle Sturmtruppen, “il fido alleato Galeazzo Musolesi”, quello che gridava proclami di guerra e mandava le cartoline alla mamma. I quotidiani italiani hanno accettato fedelmente la direttiva che le amministrative non riguardano il governo, ma resta un fatto che tutti i partiti di governo abbiano perso voti. Così come resta un fatto che il comunicato dettato la sera della vittoria di François Hollande pareva scritto da Fausto Bertinotti. “Una finanza pubblica – scriveva Mario ‘social’ Monti – è condizione sufficiente ma non necessaria per l’obiettivo chiave: una crescita sostenibile, creatrice di occupazione e di equità sociale”. Una frasetta da girare agli esodati, per farli sorridere. Ma che spiega anche l’af faticamento, i sospiri, i puntini sospensivi che punteggiano i discorsi di Monti di queste ore. Napolitano prova ad aiutarlo: “È un anno abbastanza brutto ma ci sono le condizioni per venirne fuori”. Non ce ne siamo quasi accorti: ma la Westfalia, la Francia e la Grecia son diventati l’8 settembre del Super Mario rigorista. Se ci sono le condizioni per inventarne un altro, “partigiano” dei diritti e della crescita, è tutto da verificare.
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