di LUCA TELESE
Viviamo ancora in una Repubblica democratica. Mi auguro che chi ha il dovere di far rispettare la legge adesso si muova”. Nello stesso giorno in cui si discute la riforma del mercato del lavoro che dovrebbe depotenziare l’articolo 18, una singolare coincidenza ha fatto sì che il giudice rendesse note le motivazioni della sentenza con cui ha chiesto il reintegro dei tre operai Fiom di Melfi. Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli erano stati licenziati dalla Fiat quasi due anni fa con l’accusa di “sabotaggio”. Il giudice ha spiegato che il licenziamento disciplinare era stato usato dall’azienda per mascherare un licenziamento politico. La Fiat, ancora oggi, si rifiuta di eseguire la sentenza. Un atteggiamento che ha fatto dire ieri ad Antonio Di Pietro: “Bisognerebbe mandargli i carabinieri”. Giovanni Barozzino avrebbe preferito non parlare: “Siamo felici, ma l’emozione, per certi versi è troppo grande”. Barozzino, da dove cominciamo? Da come siamo stati dipinti dai media. Io all’azienda ho dato tutto: in dieci anni ho fatto solo dieci giorni di malattia per un intervento. Cosa è successo quando avete avuto la notizia? Ci siamo abbracciati e abbiamo pianto per due ore. Spiega che cosa avete passato. Non voglio parlare di me. Ma di Antonio, che è stato licenziato quindici giorni prima di sposarsi. Un bel regalo. Siamo stati riammessi la prima volta quando doveva partire per il viaggio di nozze. Era felice di rinunciare, prenotazioni in fumo, ma gridava: “Torno a lavoro”. Ma subito dopo anche il telegramma dell’azienda, che non ci voleva. Che cosa è stato per voi questo calvario? Quasi due anni di processo. Nove mesi li abbiamo passati solo con il sussidio di disoccupazione. Voi volete il reintegro. Certo. Noi abbiamo chiesto di tornare al nostro lavoro che non è la cura del prato, ma la catena di montaggio. Tu cosa fai? Monto quel mobiletto nero portaoggetti del cambio che sta fra i sedili della Punto. Noi della Fiom abbiamo l’abitudine di restare al lavoro anche quando diventiamo delegati. Cinque ore di lavoro e due di attività sindacale. E cosa pensi di quel giorno? La notte tra il 6 e il 7 luglio del 2010? Era uno sciopero unitario, di tutti i sindacati. Perché quella lotta? Era una protesta contro i carichi di lavoro. C’era un turno intero in cassa integrazione, ma l’azienda aveva aumentato il carico del 10 per cento a quelli che erano al lavoro. Siete stati reintegrati con l’articolo 28, sui comportamenti antisindacali. Sì. Ma con la nuova legge potevamo essere tranquillamente licenziati per motivi economici e in fabbrica non tornavamo più. Niente reintegro, solo indennizzo. Che clima c’è tra i lavoratori, sulla riforma? Nelle fabbriche c’è paura. In questi giorni gli operai ci chiamano e ci chiedono loro di fare le riunioni per capire. Le avete fatte? Certo. Lo stabilimento è chiuso, e allora sono venuti da noi. Noi della Fiom non abbiamo più permessi sindacali e agibilità in fabbrica. Ma anche di questo non si preoccupa nessuno. Fate riunioni carbonare fuori dall’azienda. Sì, ma non ci piangiamo addosso. Non voglio proprio immaginare come si può difendere un lavoratore che non ha protezioni, un sindacato, o che è in una piccola ditta. Chi glieli dà 10 mila euro di avvocato? Dicono che i sindacati fanno il bello e il cattivo tempo? Ma dove? Siamo uomini, come tutti. Se tu a uno che ama il lavoro gli togli la dignità e il diritto di alzarsi la mattina e andare a lavorare con i tuoi compagni è come se lo avvelenassi. Alcuni dicono: “Ma che vogliono? Li pagano senza lavorare”. Sono dei pazzi. Siamo stati male. È stato un massacro psicologico. La cosa più dura da sopportare? Vivere sapendo che i tuoi figli si preoccupano per te. Per un padre è una tortura, un senso di impotenza che ti distrugge. E la solidarietà degli altri operai? Non si può descrivere. Per otto giorni tutti gli operai scioperarono per noi, tutti. Sai che la gente per te sta rinunciando a una parte dello stipendio. Io tornavo a casa e piangevo: di gioia e di rabbia insieme. Ma quella immagine mi ha dato forza per due anni. Non ci avevano piegato. Quando leggi sui giornali quelli che vi definiscono fannulloni che cosa pensi? Non ho mai detto alle persone che volevamo il tifo. Vogliamo solo che si informino. E chiediamo rispetto: almeno questo, anche quelli che ci odiano di più devono saperlo, ce lo siamo guadagnato.
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