di LUCA TELESE
QUANDO Marco Filoni, con un sorriso eloquente, mi ha messo in mano la “biografia sociologica” scritta da Francesco Marchianò su Walter Veltroni perché ne scrivessi una recensione, sono rimasto interdetto e intrigato. Interdetto perché quel sottotitolo mi sembrava terribilmente ambizioso. Intrigato perché mi rendevo subito conto che Marchianò coglieva un tratto esemplare e rappresentativo che la storia politica di Veltroni e la sua ricchissima carriera indubbiamente hanno: se non è la storia di un popolo, infatti, si può senza dubbio dire che la storia politica del fondatore del Pd sia la biografia più adatta per raccontare la parabola di un gruppo dirigente tra la fine del comunismo e la breve (e per ora fallimentare) “stagione democratica”.
Marchianò disegna bene il profilo di questa vicenda, colleziona fonti e interviste importanti, ed è sobriamente simpatetico con il suo biografato. Il che non limita assolutamente la sua indagine ma, forse, la rende più interessante. Il libro inizia con i primi passi nella Fgci, ripercorre l’interessantissima vicenda (mai abbastanza approfondita) di “Net”, il consorzio di tv private vicine al Pci che Veltroni si trovò a dirigere (a 25 anni!), ripercorre l’ascesa folgorante nel gruppo dirigente berlingueriano, il ruolo nella Svolta, la prima (e le successive) “guerre veltrodalemiane ”, la brillante direzione de «l’Unità», il governo dell’Ulivo (vicepremier), la segreteria dei Ds, la conquista di Roma, la fondazione del Pd. Che cosa suggerisce Marchianò con discrezione e regolarità, ripercorrendo queste tappe? Che in tutti questi passaggi importantissimi Veltroni ha sempre mantenuto un tratto eclettico, creativo e un filo di continuità “Nuovista ” e “Oltrista” ( oltre il Pci, oltre i Ds, oltre il giornale di partito, oltre il partito). Verissimo. Che cosa non dice? Un fatto che salta all’occhio in maniera lampante. E cioè che la sua stessa ricerca dimostra – con le importanti eccezioni della sindacatura capitolina e del lavoro a «l’Unità» – che tutte queste esperienze, malgrado un filo di continuità fortissimo e il grande sforzo inventivo, sono tutti fallimenti o opere incompiute.
Veltroni sa parlare, pubblica libri di successo, sa creare un immaginario come pochi altri, è di certo onesto e limpido, ma non mette radici. Veltroni è un geniale uomo di stampa e propaganda, per esempio, ma il consorzio delle tv private che avrebbe potuto essere una contro-Mediaset rossa fallisce. La lettura veltroniana della Svolta resta minoritoria e muore con quella occhettiana. La sua poco convinta sfida a d’Alema (lo dice lui stesso intervistato dall’autore) si risolve con una bella sconfitta e con un “patteggiamento” con il suo avversario. Esattamente come si riveleranno idee luminose ma incompiute: la “bella politica”, l’Ulivo dei cittadini, il secondo patteggiamento con D’Alema (tu vai a Palazzo Chigi, io vado a Botteghe Oscure), il sogno africano mai realizzato (che adesso lo insegue come una maledizione in qualsiasi invettiva internet) e, da ultimo, la costruzione ambiziosa e salvifica del partito democratico, prima vagheggiato, e poi inspiegabilmente abbandonato dopo la sconfitta delle regionali sarde: a metà strada, come un figlio negletto e con un vice che lo tradisce.
Siccome la storia non si può ridurre a macchietta, il libro di Marchianò illumina bene cosa è andato storto in tutti questi passaggi. Ma la risposta che a me viene in mente dopo aver compulsato l’ultimo capitolo è politicamente scorretta. E cioè che Veltroni sia uno di quei personaggi anche importanti, nella storia, che restano stritolati dalla sfortuna e da un difetto fatale. O, peggio, affondati a metà del guado mentre si cimentano in grandi imprese.
Si potrebbe obiettare che lo stesso destino è spettato al suo fratello-coltello Massimo D’Alema, ma questa non è certo un’attenuante, quanto piuttosto un’aggravante e una conferma del tratto “sociolog ico” (e io direi anche generazionale) di un fallimento: quello degli ex quarantenni e dei post comunisti. Sia D’Alema che Veltroni sono figli dell’apparato comunista, con la sua grandezza e i suoi limiti: entrambi sono figli parricidi del berlinguerismo (che orrore quelle parole semi-smentite di Veltroni sulla “maggiore modernità” di Craxi rispetto al segretario del Pci). Entrambi sono post comunisti che hanno cercato una nuova identità senza riuscire a trovarla e smarrendo se stessi nella ricerca. Veltroni nel suo kennedismo nazional-popolar-disneyano (definizione non dispregiativa ma elogiativa, per me). D’Alema nel suo socialdemocratismo posticcio, politicista e ultratattico (definizione oggettiva). Entrambi hanno giocato e hanno perso. Entrambi non hanno ancora capito la portata della loro sconfitta, e nessuno dei due si preoccupa del fatto che insieme a loro abbiamo perso tutti quanti. Veltroni (e D’Alema) sono stati dei modernizzatori mancati proprio perché non si sono accorti di aver fondato la loro politica su una identità abiurata (non ha spiegazioni logiche il “Non sono mai stato comunista” di Walter) e poi perché hanno cercato di costruire una nuova visione con vecchi metodi. Veltroni e D’Alema si sono combattuti con brillanti procedure da Comintern – sorrisi e pugnali –non hanno mai dato battaglia in campo aperto, non hanno mai capito fino in fondo che il fondamento delle leadership moderne sono il consenso, il coraggio, il rischio di perdere che comporta la rinuncia al ripescaggio “patteggiato”. Sono degli innovatori che hanno pensato di poter conquistare il centro con abiti postmoderni e modi di fare vetero-comunisti. Un paradosso che se volete ha una sua grandezza, ma anche una sua miseria. L’Italia è cambiata mentre loro si ingrigivano. La prossima “biografia sociologica” da compilare, va detto all’ottimo Marchianò, è quella dei tecnocrati che stanno provando a estinguere la ricchezza della politica e la difficoltà della democrazia. Quando questa missione sarà compiuta, finirà che lo rimpiangeremo, Veltroni.
Rispondi