di LUCA TELESE
Il falò della rabbia arde alle porte di Roma, un grande fuoco di fascine e legna, proprio all’uscita del casello di Carsoli. siamo a 60 chilometri dal Raccordo anulare, sull’arteria della Roma-L’Aquila, ma è un varco strategico. A meno di due chilometri, c’è lo stabilimento della Coca Cola di Oricola. Davanti ai cancelli, tutti i tir sono fermi nel piazzale. Danilo Marchetti, trasportatore, allarga le braccia con un sorriso così: “Le bibite non sono un genere di prima necessità, vero? “. Paradossi delle serrate. Dove non sono riusciti i no-global in anni di campagne di boicottaggio contro il marchio più famoso del mondo, è riuscito in poche ore il popolo dei tir. Segnali di fumo Quello di Orticola è l’impianto della Coca Cola che serve tutta l’Italia centrale e, soprattutto, la Capitale: nel tempo dei simboli e delle lotte globali, anche gli autotrasportatori si sono ritrovati per le mani un bersaglio importante. Bloccano tutti i tir, e alle cinque di sera volavano anche gli schiaffoni, con un collega che voleva forzare il blocco. L’autotrasportatore “ribelle” viene salvato solo dall’intervento della polizia. Per tutta la giornata è l’unico contatto: malgrado i proclami del ministro Cancellieri, infatti, le volanti, con i lampeggiatori innestati, si limitano a sorvegliare la protesa senza intervenire. “Fino a oggi – spiega di nuovo Marchetti, imprenditore del cemento e a sua volta trasportatore – facciamo passare le auto, i generi deperibili e i convogli che, anche se diretti a Roma, trasportano medicinali. Poi, però, se il governo non dà qualche segnale, ci incazzeremo di brutto: non ce ne frega nulla di Monti, dell’Europa, delle banche… Siamo alla fame, non riusciamo più a pagare le spese, non abbiamo nulla da perdere”. Scatole nere e tam tam Se sali nella cabina del suo tir, e segui il filo della sua storia, una delle mille che bruciano davanti al fuoco dei caselli serrati, hai l’immagine perfetta di un paese in bilico, dove il benessere e la crisi si toccano senza riuscire a stringersi la mano: “Lo vedi quello? “. In cabina Danilo mi indica “il microchip”, la madre di tutte le battaglie. I camionisti meno evoluti hanno “il disco”. Ma il risultato non cambia. É la scatola nera che registra ogni cosa: viaggi, percorrenze, velocità. Nel “disco” c’è il racconto della crisi di questi anni. Spiega Alessandro De Angelis, un altro trasportatore imbufalito: “Tre anni fa abbiamo fatto la serrata più lunga e drammatica della nostra storia. Protestavamo con il gasolio a 1, 20, e ci sembrava tanto! Adesso – aggiunge De Angelis – siamo arrivati a 1, 70!!! come si fa a campare così? “. Intorno a lui parte un boato. Ancora Marchetti, sul suo bestione racconta: “Diranno che c’è chissà quale regia, che c’è chissà quale disegno: ebbene, è tutto partito dai baracchini… Abbiamo sentito della Sicilia, ci siamo fatti i nostri conti e l’incazzatura ha fatto il resto”. Il baracchino dei radioamatori è il vero tam tam della protesta: per tutto il tempo della nostra chiacchierata continua a battere dati, notizie, ordini di mobilitazione. Non è escluso quello di prendere e partire per andare a bloccare i renitenti alla serrata. “A bordo l’abbiamo tutti, è il vero cuore del popolo dei tir”. Se vuoi capirlo, questo mondo, devi capire le sue regole. Molti dipendenti, ma soprattutto “i padroncini”. La famiglia tipo funziona così: lui sulla bestia a guidare, la moglie a casa. Fare la ragioniera contabile e l’amministratrice. Alessandro, un altro autista, racconta delle multe (esose) che vanno pagate subito e in contanti: “Un giorno, alle otto e mezza del mattino, ho dovuto svegliare Paola, perché mi portasse i contanti. Se non paghi subito ti ritirano il mezzo”. Se ti fermano, aggiunge un altro, ti controllano il disco fino a un mese prima, e paghi qualsiasi sgarro. Gli zombie È furibondo, Alessandro: “Le multe le paghi subito, le tasse pure, il gasolio ogni giorno, i pedaggi ogni ora!!! Dovrebbero pagarci un euro e venti al chilometro, ma ormai prendiamo 20-30 centesimi di meno. E se lavori per un’amministrazione non ti pagano mai… “. Danilo ti racconta della sua impresa cementizia che va bene, e che si è inventato un procedimento di riciclaggio totale delle sabbie. Degli scarti dell’edilizia: “È una procedura del tutto ecologica, però devo comprare nuovi macchinari, e le banche non mi fanno il leasing. Così passiamo dal boom di fatturato all’impossibilità di pagare tutti gli stipendi”. Quando lo dice abbassa la voce, ma ha dovuto vendere tre tir della sua impresa. L’ultima frontiera della guerra fra poveri si chiama cabotaggio. Imprese italiane che fissano la propria sede all’Est, dove pagano solo il 30 % di tasse, assumono autisti stranieri, e poi lavorano a tutti gli effetti in Italia, ammazzando il mercato con tariffe stracciate. Il turno di 4, 5 più 4, 5 ore al giorno e in mezzo la pausa pasto dovrebbe essere la garanzia contro ogni autosfruttamento. Ma chi è veramente disperato, con le banche da pagare, ti raccontano, fa lo “zombie”. Se ne frega del disco, della pelle e di tutto, si riempie di Red Bull per non dormire e viaggia per un giorno intero. Se lo ferma la polizia ha chiuso perché il disco registra tutto. Ma se la fa franca riesce ad ammortizzare le spese e a tirare avanti. Ecco perché, davanti al fuoco, tutti dicono che se non ottengono lo sconto carburanti e pedaggi agevolati andranno avanti a oltranza. E quando con i tiggì della sera arrivano le minacce di precetto della Cancellieri, sui baracchini rimbomba un grido: “Domani tutti a Roma, davanti al Senato”. Presumibilmente in tir.
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