di CARLO ANTINI*
Per cambiare l'Italia bisogna avere il coraggio di non arrendersi. E di dirlo a chiare lettere. Come fa Luca Telese nel suo nuovo «Gioventù, amore e rabbia», in cui racconta l'Italia della speranza, un Paese dove la gioventù sembra una colpa, l'amore estinto e la rabbia l'unica risposta possibile. Nel suo libro, Telese raccoglie la sfida di raccontare l'Italia ai tempi della crisi, e lo fa intrecciando la propria passione professionale, quella di un «giovane quarantenne» che ha firmato il primo vero contratto dodici anni dopo aver iniziato a lavorare, con le storie raccolte da un osservatorio privilegiato qual è quello del cronista. Ci guida nella terra dei precari, del popolo «viola» speranzoso e deluso, di quello «black» furioso e iconoclasta, di talenti e fuoriclasse, di creativi cassintegrati e di operai sbeffeggiati. «Questa è la storia di un Paese unico al mondo – spiega il giornalista – Un Paese bellissimo che si è fatto improvvisamente crudele, che divora se stesso e i suoi figli, che costringe i giovani a vivere con la paghetta dei nonni, che mette all'asta la prospettiva del futuro e demolisce le certezze del passato». Il libro comincia con la sfida tra Cristoforo Colombo e Amerigo Vespucci, che è il primo grande confronto fra l'integralismo e l'informazione, l'anno zero della modernità e anche del giornalismo. Prosegue con un lungo viaggio che conduce dai caratteri a piombo a Internet. Questa Italia di inizio millennio è un Paese segnato dalle disuguaglianze e da barriere di classe apparentemente invisibili. Da un lato il mito dei consumi per tutti, dell'impunità, del potere intangibile. Dall'altro la condizione dei nuovi poveri: giovani e vecchi, ragazzi che trovano chiuse tutte le porte e meno giovani che vengono espulsi dal mercato del lavoro senza più reti di protezione. Oggi nessuno vuole fare più il maestro. La generazione dei baby boomer è invecchiata molto peggio di quella dei suoi padri che aveva contestato. Il vecchio pensa di eternarsi in un mito di giovinezza perpetua, camuffandosi da eterno giovane: mettendosi in competizione con lui, ma non disdegnando l'idea di sfruttarlo. I giovani nati dopo il 1989 costituiscono una generazione «colonizzata e oppressa». Oppressa perché viene considerato normale che sia privata dei diritti e della speranza, del reddito e perfino della garanzia previdenziale. Colonizzata perché è riuscita, su questi ragazzi, una micidiale operazione di condizionamento: gli ex contestatori che mettevano sotto processo i loro padri, quando sono diventati a loro volta genitori hanno rimosso il conflitto, lo hanno negato ed esorcizzato come se fosse il più inaccettabile dei mali. Ma questa rimozione del conflitto ha danneggiato sia i vecchi che i giovani. Il padre-fratello maggiore è solo apparentemente complice e, in realtà, nemico. Attraverso volti e narrazioni, «Gioventù, amore e rabbia» delinea una ricetta che è quasi un manifesto generazionale: oggi, non domani, è il momento giusto per i giovani italiani di tirare fuori l'amore e la rabbia, che non significa distruzione cieca, ma coraggio di volere il cambiamento. Solo così la speranza può tornare a vincere. Ecco perché per cambiare le cose occorre fare scouting, liberare energie, infrangere rendite di posizione. E bisogna soprattutto cancellare i due modelli del colonialismo generazionale: quello dei padri-paternalistici e quello dei «papi». A un patto. L'Italia della speranza può vincere solo se qualcuno inizia a raccontarla.
* Il Tempo – 22 nov 2011
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