di LUCA TELESE
E alla fine scoppiò il big bang nel Pdl. Partito in pezzi squadernato come un libro, devastato dalla guerra fra correnti e dal conflitto fra opzioni politiche contrapposte. Tutti contro tutti, “resistenti” contro “traditori”, e Silvio Berlusconi – ancora una volta – contro se stesso. Solo 48 ore fa aveva dato il via libera al governo di Monti, adesso temporeggia, riscrive la sua posizione, registra i malumori, alla fine annuncia che a decidere – domani mattina – sarà una nuova riunione della direzione del partito. Scelta a dir poco singolare, visto che l’ultima riunione rovente, in quella sede, nella memorabile giornata dell’Auditorium della Conciliazione, era stata quella del “Che fai, mi cacci?” di Gian-franco Fini. Dopo questa ira di Dio, sembrava quasi grottesca la dichiarazione di Angelino Alfa-no, che riassumeva la situazione in modo quasi idilliaco: “Ci sono opinioni diverse che saranno portate a sintesi. Quando questa sintesi sarà prodotta vedrete che il partito voterà compatto”. Sì, pare vero. Così, per capire cosa è successo, bisogna ricostruire la cronistoria di una giornata complessa. Il primo strappo, quella che dà il via alle danze, è quello che compie di prima mattina il ministro Gianfranco Rotondi. Convoca una conferenza stampa alle 11.30, quando dopo le riunioni della notte prima sembra che tutte le diatribe siano sopite, e che il Pdl sia rassegnato a votare il governissimo. MENTRE il partito sta ancora digerendo questo film, la prima scintilla che porterà alla deflagrazione del dissenso, arriva in modo imponderabile. Rotondi si presenta a Montecitorio, e dopo aver precisato che considera il suo gesto dovuto e quasi testimoniale, spara a palle incatenate contro l’ipotesi di un esecutivo Monti: “Questo governo diventa inesorabilmente un papocchio”. E subito dopo: “Non possiamo pensare che si entri in un periodo di sospensione della democrazia”. Poi c’è una professione di disciplina di partito che pare attenuare le staffilate: “Io sono eletto sotto il simbolo di Berlusconi, quindi mi dimetto, ma lui sa che potrà contare sempre sui nostri voti”. Ma dopo questa apparente concessione agli ordini di scuderia l’affondo finale diventa caustico: “Sul governo Monti assolvo Bersani per non aver compreso il fatto. Voglio ringraziare Di Pietro, De Magistris e Il Fatto per la lealtà con cui ci hanno combattuto, mi dimetterò, non dopo aver espresso tutto il mio dissenso contro questa evidentissima congiura e questo silenzioso golpe”. Montecitorio è quasi spopolato, quella di Rotondi pare una sortita isolata. Invece la vecchia volpe democristiana ha gettato l’innesco sul tritolo. Passano solo pochi minuti, e all’una arriva la conferma che anche gli ex An sono in subbuglio. TRENTA DI LORO fanno sapere ai vertici che sono pronti ad opporsi al governo. Ignazio La Russa, anche se con qualche minima cautela conferma: “A noi le ammucchiate non sono mia piaciute. Noi – dice il ministro della Difesa – non crediamo che all’Italia serva un governo non sorretto dal voto popolare, e composto da voci inconciliabili”. Fino a quel punto si pensa che il dissenso possa essere circoscritto ad alcune componenti. Ma la prima detonazione innesca la reazione a catena. A Montecitorio i capannelli dei pidiellini si riempiono di scettici. Deputati che sono lo zoccolo duro del partito, come Beatrice Lorenzin: “Non ho nessuna voglia di votare un governo a scatola chiusa, un governo che magari mette la patrimoniale sulla casa dei miei genitori, che hanno lavorato tutta la vita!”. Umore identico a quello di Annagrazia Calabria, la più giovane e quadrata delle deputate piedielline, e di Nunzia De Girolamo. All’ora di pranzo irrompe la pattuglia degli “arancioni” di Grande Sud, la formazione di Giamfranco Micciché, ex forzi-sta della prima ora, oggi alla guida di un movimento che anche in questa uniformità cromatica punta a costituire una Lega di centrodestra: “Questo governo lo faccio nascere, ma un minuto dopo, se si mette a massacrare il Sud, gli scateno la guerriglia!” Micciché dice anche che la caduta del governo è frutta dell’odio per il dissenso che c’è nel partito, cita il caso della Carlucci – difendendola – si arriva al litigio. La discussione contro la deputata accende un’altra miccia, quella contro i “traditori”. Una deputata che non vuole apparire inveisce contro Frattini, ministro annunciato: “È stato tradito da quelli che gli facevano da scendiletto!”. È una febbre che sale, e che si propaga. Si diffonde la voce che Antonione vuole costituire un gruppo per le consultazioni. Sale l’ira. Berlusconi riunisce l’esecutivo. E nel pomeriggio la presentazione con diretta web del libro di Maurizio Lupi, formigoniano doc, diventa l’altare del nuovo governo, con Casini e Fini che tessono le lodi di Monti e della governabilità. Passano pochi minuti e si scopre che Giuliano Ferrara e Alessandro Sallusti, domani mattina convocano il popolo del Pdl a MiIano per invocare il voto subito. La diga si rompe, Berlusconi parla ai gruppi. Quagliariello ventila “la possibilità di un appoggio esterno”, e lui dice: “Non possiamo permetterci tre mesi di campagna elettorale”. Si concede una invettiva contro l’ex Antonione: “L’ho sostenuto quando lui era un perdente e lui ha tradito”. Ma la verità è che la tentazione di far saltare il tavolo, ancora una volta c’è. “Avrei voluto il voto, ma la speculazione”, dice. E solo domani sapremo chi vince nella notte dei lunghi coltelli azzurri.
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