di LUCA TELESE
E così, per la seconda volta, Eugenio Scalfari ha messo sul tavolo tutto il suo prestigio, il suo carisma, l’indubbio credito di cui gode presso il Quirinale per lanciare un messaggio forte – e non privo di accentuate coloriture polemiche – a Giorgio Napolitano: quello con cui gli chiede di non firmare la nomina di Bini Smaghi. L’ultimo grido di allarme, nella ricostruzione dei delicatissimi rapporti istituzionali tra Silvio Berlusconi e l’inquilino del Colle, il fondatore di “Repubblica” lo ha lanciato ieri, dalle colonne della prima pagina del quotidiano di Largo Fochetti. Parole ferme, asciutte, inequivocabili, scelte per spiegare che Napolitano ha diritto all’ultima parola sulla tormentata vicenda della nomina del governatore della Banca d’Italia: “Per quanto riguarda il Capo dello Stato – scrive infatti Scalfari – la sua non è una controfirma dovuta su un atto di governo, ma una firma apposta a un decreto di sua diretta emanazione”. E, proprio per evitare qualsiasi equivoco interpretativo, il fondatore aggiungeva: “Il diritto di proposta spetta a Berlusconi, ma Napolitano ha pieno diritto di rifiutarlo se lo ritiene inopportuno, e chiedere una proposta alternativa”. Leggete bene: pieno diritto di rifiutarlo. Vale la pena di pesarle con molta attenzione queste parole, visto che è la seconda volta – nel giro di dieci giorni – che Scalfari suggerisce a Napolitano di non assecondare le scelte di Berlusconi e non “rassegnarsi” all’impotenza del governo. Anche nell’appello di Libertà e Giustizia stilato da Gustavo Zagrebelsky si potevano leggere segni di un disagio che ormai è condiviso da diversi esponenti dell’ala democratica: “Si dice: il governo ha pur tuttavia la fiducia del Parlamento e questo basta ad assicurare la legalità democratica. Ma oggi avvertiamo che c’è una fiducia più profonda che deve essere ripristinata”. Così questo fondo pesa ancora di più. Non è un cambiamento da poco, se è vero che spesso da quello stesso gruppo di intellettuali “neoazionisti” piovevano critiche su questo giornale per un presunto eccesso di critiche al Quirinale.
Il primo editoriale di Scalfari sulle prerogative di Napolitano, però, era arrivato dopo la clamorosa sconfitta del governo alla Camera. Napolitano, osservava Scalfari in quell’occasione, “Ha fatto sentire per due volte la sua voce subito dopo ‘l’incidente’ che ha bocciato il Rendiconto generale dello Stato. In un primo comunicato – aggiungeva – ha chiesto al premier di verificare in Parlamento se la maggioranza fosse ancora compatta e decisa a rinnovargli la fiducia e spiegasse in che modo intendeva rimediare alla bocciatura del Rendiconto generale; ma in un secondo ‘lancio’ diffuso a distanza di poche ore ha ultimato al governo di lavorare con coerenza e rapidità alle misure di risanamento e di crescita senza le quali il Paese rischia di affondare nella tempesta della crisi. Impeccabile certamente, non poteva dir meglio e tuttavia – sottolineava – neppure in questo modo si risolve il problema”.
Anche in quel caso Scalfari non lesinava consigli: “Tutto dunque lascia prevedere – scriveva – che il governo e la sua maggioranza, balcanizzati in cricche e cacciati, non sapranno ottemperare alle richieste di Napolitano. Che cosa farà a quel punto il presidente, di fronte a un governo sempre meno credibile ma sempre sostenuto dalla fiducia del Parlamento? La domanda è questa e non è di poco conto. Per misurare l’esistenza della fiducia parlamentare il Quirinale, come tutti noi, ha un termometro: i voti riscossi dal governo. Ma per misurarne la credibilità, l’operosità, l’efficienza, non esiste un termometro; esistono soltanto valutazioni e risultati. Le valutazioni sono soggettive e quindi differiscono tra loro, i risultati sono invece oggettivi anche se richiedono un tempo tecnico per esser raggiunti. Quelli che abbiamo – concludeva il fondatore – per ora su questo governo equivalgono allo zero assoluto”. L’articolo si chiudeva immaginando una via di uscita: le dimissioni “volontarie” (e magari sollecitate) di Berlusconi. Ed era così stringente, quel ragionamento che il giorno dopo Emanuele Macaluso rispondeva, come vedremo, con una forte idea polemica. Prima accusava Scalfari di mettere in discussione il prestigio del capo dello Stato. E subito dopo, rispondendo al post scriptum in cui Scalfari lo citava, Macaluso attaccava su un tema ancora più delicato: “Scalfari osserva che la mia opinione ‘come tutte le opinioni, è puramente soggettiva’. Come le sue. È un’ovvietà. Ma perché sottolinearlo? O si tratta – concludeva Macaluso – di una velenosa insinuazione per dire che vorrei essere, ma non sono, un portavoce del Colle? Miserie!”. Che questa polemica non resti confinata nei confini di carta dei quotidiani, lo dimostra il fatto che ieri, proprio su questi temi Il presidente della Repubblica sia stato contestato a Pisa al grido di: “Vergogna, vergogna”. È vero, si trattava solo di una cinquantina di persone, ma al presidente rimproverano di avere controfirmato le leggi di Berlusconi e la riforma Gelmini. Solo un dubbio: cosa scriverà, dopo aver letto lo Scalfari di ieri, Macaluso?
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