di LUCA TELESE
Finisce così: 316 a 301. Di questa giornata resterà l’immagine caravaggesca di Silvio Berlusconi che benedice con l’imposizione della mano il santo del giorno, l’onorevole Michele Pisacane da Agerola, avellinese, ex democristiano, ex udicino, ex tutto.
Il peso di Pisacane
Eccola qui affianco, quell’immaginetta sacra: Silvio, l’apostolo Denis Verdini e il figliol prodigo Michele, quello che al primo appello non si trova, e che torna alla seconda chiama a votare la fiducia. Quello che in Transatlantico proclama: “Ci sono deputati che pesano come piume e altri che pesano come il piombo. Io – sorride – sono tra questi. Ho votato all’ultimo momento per regalare visibilità al mio Pid. Ci sono riuscito!”. Ci voleva anche il Pid per raccontare un altro frammento di indignazione possibile in questo Parlamento, assieme alle maldestre partite di poker dei Radicali (contro la propria coalizione), alle tattiche parlamentari e agli scongiuri scaramantici del premier che la mattina punta il dito sulla pancia del cronista, alla buvette: “Eccolo qui, un antiberlusconiano doc. Mi volete morto? Eh, eh, eh…”. Rispondo che ci basta regalargli un po’ di riposo. E lui: “Ah, la vostra motivazione sarebbe umanitaria? Capisco…”. Ma, battute a parte, Montecitorio era per l’ennesima volta trincea di guerra: una conta all’ultimo sangue in una giornata da pallottoliere. E la sera prima della battaglia, un’idea di Franceschini aveva terremotato ogni strategia della vigilia. Qui va spiegato il regolamento di Montecitorio, che prevede un quorum di metà dei deputati perché sia valida una votazione. Questo numero legale spesso sospirato, in realtà, non viene mai sfiorato nel voto di fiducia, perché si dà per scontato che tutti puntino al pieno di presenze.
Thrilling e minacce
L’idea del capogruppo del Pd era – a suo modo – il più classico (in qualche modo geniale) uovo di colombo. Se tutte le opposizioni non votassero, pensa il capogruppo del Pd, il centrodestra dovrebbe portare in aula almeno 315 deputati. E se è vero che il governo Berlusconi aveva toccato anche 320 voti, è vero che negli ultimi mesi sono molti i pezzi persi per strada. In mattinata la mossa a sorpresa viene rivelata: radio aula amplifica il tam-tam in un baleno. Udc e Fli accettano di provare il colpo. Ma proprio quando la mossa pare funzionare, e la paura serpeggia tra le file del Pdl, ecco il contro-colpo di scena. Dalle dieci del mattino nessuno dei sei deputati radicali risponde più al telefonino. Franceschini e gli altri temono che potrebbero votare malgrado l’indicazione unitaria di tutte le opposizioni sia di non farlo. È quel che accadrà. Ma prima succede di tutto. Quando si vota ci sono due “chiame” (si dice così), e poi il presidente ha diritto a un ultimo appello per i ritardatari. La prima chiama è scandita dalla lettura di tutti i 630 nomi. La seconda quella degli assenti. Così, nell’emiciclo il pacchetto di mischia gravita intorno al roccioso Denis. Verdini convoca i deputati man mano che procede lo scrutinio, si attacca al telefono, a un certo punto grida (rivolto a chissà chi): “Ma dove cazzo è?”.
Santo e Papa
È proprio durante quel primo appello che si scopre che la maggioranza non sta andando benissimo. Non c’è più, tanto per dire, Santo Versace. Non c’è l’onorevole Papa, che come è noto è in carcere. Manca l’onorevole pidiellino Franzoso (malato). E si vocifera che due scajoliani potrebbero non votare. Quando si scopre che è davvero così il nervosismo nel centrodestra diventa palpabile. Il presidente recita il nome di una delle dissidenti, Giustina Destro (che non si presenta). L’azzurra Valentina Aprea si mette a urlare: “Dovremmo accoglierla con i fischi!”. Non ha votato Sardelli. E non vota nemmeno Gava. Quattro voti di meno, a cui si aggiunge – a sorpresa – proprio quello di Pisacane. Si imbufalisce il coordinatore veneto del Pdl Alberto Giorgetti con i due scajoliani: “Sono fuori dal partito!!”. Ma a questo punto, il telefonino di Verdini si concentra su quelli che si possono recuperare. Per avere chiaro quanti voti manchino, nei gruppi si sono preparate delle tabelle. Quando mancano solo pochi nomi alla fine della prima chiama, i voti per il governo sono 314. Uno di meno di quelli necessari a raggiungere il quorum. È a questo punto che con il colpo di scena annunciato (ma sempre teatrale), entrano in aula. Qualcuno da destra applaude, gli altri fanno: “Shhh!”. Cosa faranno? Beltrandi, la Bernardini, Turco, la Coscioni e Mecacci restano fermi vicino al banco di presidenza per tre lunghi minuti. Arriva di corsa un altro pidiellino Alberto Milo. Vota. Lo avrebbe fatto lo stesso? Forse. Ma i Radicali, mostrando platealmente la loro intenzione, spingono i titubanti della maggioranza a non esporsi (perché con 5 voti da sinistra loro non sono più determinanti). La prima chiama si chiude con 322 voti: 315 sì e 7 no (i Radicali e l’Svp, che li segue). Nel secondo giro arriva il “voto di piombo” di Pisacane. Totale 316. Il Caimano è ancora una volta vivo. Ma i 4 deputati persi non tornano più. Il governo torna a navigare sapendo che con 2 soli voti di scarto basta un piccolo scoglio per affondare.
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