di LUCA TELESE
Il calvario di un ministro sulla brace. Che impressione faceva vedere Giulio Tre-monti sulle spine, ieri con il fondale azzurrino di un programma della mattinata Rai. L’aria a tratti spavalda di un tempo, ma poi ci sono le parole che si incespicano, gli anacoluti e puntini sospensivi, gli occhi che si stringono mentre pesa le sue affermazioni. È un ministro sulla brace, chiuso nella tenaglia di un doppio ricatto, e che rischia di violare una norma sui subaffitti inserita da lui stesso nella Finanziaria.
Di fatto è stata una maratona mediatica. A Uno-mattina spiega che chiedere scusa agli italiani gli viene difficile, al Corriere della Sera dice che pagava in contanti metà dell’affitto di casa all’amico Milanese, a Repubblica, intervistato da Massimo Giannini, consegna una rivelazione a dir poco esplosiva: quella di aver smesso di abitare in una caserma della Guardia di Finanza, a Roma, perché si sentiva sorvegliato.
SI PUÒ GIÀ scommettere: oggi nessuno dei grandi giornali infierirà sul superministro. Troppi sono i timori e poi c’è il grande alibi: se salta lui, i conti dei titoli italiani vanno a picco. Eppure, la grande giornata di esternazioni di Tremonti, ieri, ha lasciato aperti non pochi dubbi, a livello di credibilità, sulla ricostruzione della rocambolesca vicenda della sua casa in affitto in via di Campo Marzio e – a ben vedere – lascia intendere che Tremonti era (ed è ancora?) sottoposto a due pressioni insostenibili: quella di un potere riconducibile al governo di cui fa parte e quella del suo più stretto collaboratore, sotto inchiesta. Ma procediamo con ordine. Tremonti a Giannini dice con tono apparentemente minimizzante: “Lo riconosco. Ho fatto una stupidata. E di questo – giura – mi rammarico e mi assumo tutte le responsabilità. Ma in quella casa non ci sono andato per banale leggerezza. Il fatto – aggiunge – è che prima ero in caserma, ma non mi sentivo più tranquillo. Nel mio lavoro ero spiato, controllato, pedinato. Per questo ho accettato l’offerta di Milanese…”. Insomma: la conferma diretta di quello che si era già appreso per via indiretta. Ai magistrati che lo interrogavano, infatti, Marco Milanese aveva riferito di un colloquio tra il premier e il numero uno dell’Economia italiana in cui Tremonti diceva a Berlusconi di non voler essere sottoposto “a nessuna macchina del fango”. E lui stesso, il 17 giugno, aveva confermato quel sospetto. Se fino a ieri questo terribile incastro era rimasto quasi sepolto sotto il clamore dell’inchiesta, adesso torna prepotentemente con il vaglio della possibile vittima in una dichiarazione pubblica. In quale Paese del mondo un ministro resterebbe al suo posto dopo affermazioni di questo tipo? Ancora più stupefacente il discorso sulla casa. A una domanda sulla ricostruzione dell’imprenditore Tommaso Di Lernia, secondo il quale l’affitto della casa non lo pagava Milanese, ma un altro imprenditore, Angelo Proietti (che in cambio secondo i pm che indagano milanese otteneva sub-appalti) il ministro ha negato addirittura di sapere di cosa si tratti: “È una storia di cui non so nulla – ha commentato – non conosco quell'imprenditore indagato, non so nulla del contesto nel quale ha raccontato quei fatti”. Nella lettera indirizzata al Corriere il ministro dice di più: “In contropartita della disponibilità di cui sopra, basata su di un accordo verbale revocabile a richiesta, come appunto poi è stato – spiega Tremonti – ho convenuto lo specifico conteggio di una somma a titolo di contributo, pagata via via per ciascuna settimana e calcolata in base alla mia tariffa giornaliera di ospitalità alberghiera. Come facevo prima e come ora appunto faccio ogni settimana in albergo. Aggiungo solo che all’inizio avevo pensato a un diverso contratto, che ho poi subito escluso, per ragioni personali. (…) Comunque nessun ‘nero’ e nessuna ‘irregolarità’. Trattandosi di questo tipo di rapporto tra privati cittadini non era infatti dovuta l’emissione di fattura o vietata la forma di pagamento”. E subito dopo aggiunge da dove derivava la sua disponibilità economica: “Dal 2001 prima, e poi dal 2008, ricevo in contanti, in modo perfettamente lecito ed ufficialmente registrato, il mio compenso da ministro, pari a circa 2.390 euro al mese. Rispetto ai ‘circa 4.000 euro’ mensili, la differenza risulta così pari a circa 400 euro a settimana, a circa 1.600 euro al mese”.
TUTTO CHIARO? Per nulla. In primo luogo perché l’idea che un ministro della Repubblica non si senta sicuro in una caserma del Corpo che dipende dal suo ministero è a dir poco insostenibile. Così come quella che lo stesso ministro, sentendosi “controllato”, si rivolga al suo presidente del Consiglio paventando di essere vittima di “una macchina del fango”. E poi perché, a questo grande ricatto, se ne può aggiungere un altro, più piccolo, ma non meno inquietante. Quando era scoppiato lo scandalo di Milanese, Tremonti aveva annunciato di essere “ospite”, e di aver lasciato la casa. All’epoca non aveva parlato di nessun affitto, come mai? E il contratto? La stessa Finanziaria di Tremonti del 2005 (art. 1 comma 346) ha rinforzato la lotta all’evasione estendendo “l’obbligo di registrazione a tutti i contratti di locazione nonché ai contratti di godimento”. Inoltre: diceva di condividere l’appartamento con Milanese, ma il portiere e i vicini dicevano di aver sempre pensato che l’affittuario fosse lui. Poi il colpo di scena: Tremonti scherza sulle dimissioni da inquilino, e poi aggiunge che pagava metà della cifra. 4.000, che è la metà di 8.000. 4.000 – in contanti e senza fattura – che è appunto inferiore a 5.000: soglia limite per cui le norme “anti-riciclaggio” prescrivono il pagamento “tracciabile” tramite bonifico o assegno.
COME MAI, dunque, questa “metà”, visto che non godeva di “metà” appartamento? Perché? Perché nel frattempo è stato Milanese a sostenere la sua tesi nella memoria difensiva. Quindi il ministro non può “scoprire” il suo collaboratore, che ai pm deve giustificare spese fuori da ogni possibile tenore. Ed è qui che nasce la giornata di esternazioni. Dice Tremonti che la tracciabilità, non c’entra nulla. Dice di essere stato “distratto dal peso del terzo debito pubblico” più grande del mondo, ma che c’entra? Ma anche qui sbaglia: a essere tracciabile, se non fosse stato elevato il livello imposto da Visco, sarebbe stato in ogni caso Milanese. È per corroborare la sua versione che Tremonti, ieri, si è messo nei guai.
Foto | Flickr
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