Esordisce con una scarica di simpatia Pier Luigi Bersani, parafrasando Maurizio Crozza da piazza del Pantheon: “Lo abbiamo smacchiato… Abbiamo smacchiato il giaguaro!”. Gli fa eco da piazza del Duomo, a chilometri di distanza ma alla stessa ora, un Nichi Vendola con voce arrochita dall’adrenalina: “Vince il centrosinistraaààà! Un centrosinistra, che ricorre alle primarie, che segue la logica di un popolo largo. Ha vinto l’Italia dell’eleganza delle passioni!”. Spiega invece Luigi de Magistris, dal suo fortino elettorale, travolto da un mare di entusiasmo arancione: “Quello di Napoli, è il successo di un grande movimento popolare che mi dà una grande responsabilità, ma anche una grande leggerezza!!!”.
Pensateci, solo per un attimo: responsabilità, pluralità, leggerezza. In fondo, a collegare idealmente questi tre palchi, ci sono tre punti cardinali che, per la prima volta dopo anni, tengono insieme con un unico filo rosso (o arancione) tutte le realtà della nuova coalizione uscita vincitrice dalle elezioni di ieri: tre volti, tre leader, tre partiti (Pd, Sel Idv), il nord e il sud d’Italia insieme. Non era accaduto neanche nel 2006. E nemmeno nel 1993, quando Vittorio Feltri cesellava a Milano-Italia battutacce di carta vetrata (“I Dalla Chiesa sono come le patate: la parte migliore sta sottoterra!”), e la capitale morale si consegnava all’illusione della Vandea leghista formentiniana. Stavolta è diverso: i punti cardinali del paese sono uniti, e nella festa arancione c’è pure Cagliari, dove Massimo Zedda corona con la vittoria una campagna elettorale da manuale, strappando la città alla destra (che lo governava dal 93). Ieri, un unico filo teneva insieme nord e sud, passato e presente del centrosinistra, se si aggiunge che, per magia, sul palco di Roma, al fianco di Bersani si appalesa anche Romano Prodi (fino a ieri si teneva lontano dalle manifestazioni del Pd come da zone contaminate). Eppure ieri Prodi era lì, sembrava più asciutto, ringiovanito rispetto ai giorni terribili del 1998. Fermo, senza dir nulla, impassibile, sorridente, come un semaforo, come nell’indimenticabile parodia di Corrado Guzzanti.
Quattro leader, quattro città, tre idee della sinistra, ma un’unica coalizione. Se ci pensate, il centrosinistra che esce da queste urne, è un progetto di alleanza deciso dagli elettori prima che dalla sua classe dirigente. E che ora, come spiega Bersani, supera il risultato del 2006 (allora – ed era un punto elettorale alto – la coalizione conquistò 55 città, stavolta è arrivata a 65). E’ una carta di identità, quella con cui questa coalizione si presenta al paese, che è stata scritta (o riscritta) dagli elettori con le primarie (a Napoli – dove erano state inquinate – addirittura con il voto del primo turno elettorale) quasi sempre con un ribaltamento delle indicazioni dei gruppi dirigenti di partito (per stare ai grandi centri: in 4 casi su 6!).
A Roma, sul palco improvvisato di una piazza del Pantheon impavesata con tutti i vessilli del nuovo centrosinistra, la mancanza di un copione ha rappresentato simbolicamente gli entusiasmi, gli slanci e anche i limiti di una coalizione che è ancora un cantiere lavori-in-corso. Alle sei del pomeriggio, per dire, Piazza Montecitorio si riempie con le bandiere rosse di Sel, autoconvocate per celebrare la vittoria. A pochi metri – solo un’ora più tardi – si riunisce il partito Bersani. E allora Ciccio Ferrara, uomo macchina dei vendoliani chiama i compagni del Pd: “Che ne dite se veniamo da voi?”. Lo dice con tutti i suoi compagni intorno, pensando che non ci sia nulla da velare, in quella comunicazione. E invece ci resta quasi male quando dall’altra parte del telefono un dirigente con cui sta parlando (chi sarà stato?) gli risponde: “Meglio di no… questa è la nostra festa”. Ma mentre si svolge questa singolare trattativa il corteo è già partito, e sciama per il centro all’insegna del coro da stadio, con la gente che applaude dai negozi e dalle finestre: “Pì-Pì-Pisapiààà…. Pì-Pì-Pisapiààà….”.
Quando le bandiere rosse entrano nella piazza unendosi a quelle bianche del Pd scatta l’applauso. Gira a manetta la canzonetta di Neffa che piace tanto a Bersani (“Cambierà/ vedrai che cambierà”) e poi, come in un appello a cui si risponde senza invito arrivano le bandiere dei Verdi, della Federazione, dei comitati per l’acqua e (numerosissime) dei dipietristi. A Roma Bersani (si dimentica del referendum!) scherza: “Abbiamo pareggiato 4 a 0!”, e manda un avviso di garanzia a Berlusconi: “Dimettiti!”. A Milano, Vendola batte sullo stesso tasto: “Abbiamo espugnato la capitale del nord, che sembrava il fortino e il bottino per sempre consegnato all’egemonia della destra. Ma abbiamo conquistato anche la capitale del sud”. Aggiunge: “Un ciclo si è compiuto. È l’Italia che manda a dire a questa classe dirigente che sono diventati sgradevoli! È sgradevole la volgarità, il tentativo di sfuggire ai problemi del paese”. Quando gli chiedono di cosa abbia discusso con Bersani, Vendola dice: “Ci parleremo domani”. Ma ora, l’alleanza decisa dagli elettori è improcrastinabile. Dovrà riunirsi, dribblare le sirene del governissimo, darsi un leader nazionale (chiunque sia), sceglierlo con l’unico strumento che si è rivelato efficace: quelle primarie che ieri hanno portato ovunque alla vittoria.
di Luca Telese
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