Èora di cambiare rotta, anche in Italia. Tempo di archiviare le rendite di posizione, le carriere garantite, la prevalenza del babbione, sempre e comunque in ogni luogo. C’è una piccola storia, nelle storie dei nostri giornali, che merita di diventare esemplare per ciò che racconta di questo nostro Paese: quella di Emanuele Macaluso, 87enne che al Riformista prende il posto di un direttore trentenne, Stefano Cappellini (non gli bastava fare l’editore, ha voluto pure firmarlo, il quotidiano arancione!). Ecco, in tutta Italia, tutte le istituzioni gerarchiche (scuole, università, partiti) funzionano così: chi è giovane deve accontentarsi del “portaborsato” a vita, i soliti noti decidono e precettano: piuttosto che fare carriera, i giovani recedono. Una amica ricercatrice mi ha raccontato un’altra storia esemplare: una professoressa ultrasessantenne le assegna una relazione per un importante convegno storico. È sul suo argomento preferito, ci lavora tre giorni, si mette in viaggio contenta perché – in quella università che non le dà riconoscimenti economici – almeno potrà consolarsi confrontandosi sul piano scientifico. Ma quando si arriva al convegno, i tempi sono contingentati. Il suo intervento salta, e la relazione sarà letta dalla professoressa. Due storie così: due piccoli-grandi apologhi sull’Italia che non funziona. Un tempo “i grandi vecchi” – dalla politica al cinema, dall’università all’industria – erano grandi perché insegnavano le cose. Oggi nessuno vuole più fare il maestro, il vecchio pensa di eternarsi in un mito di giovinezza perpetua, camuffandosi da giovane.
Ecco, in un tempo in cui l’opposizione è chiamata alla riscossa, dopo il risultato del voto amministrativo, non si può più sbagliare, considerando anche il risultato strepitoso dei giovani “grillini” (a cominciare dal 3,5% di Mattia Calise a Milano). Il Paese va cambiato, liberato da una classe dirigente che si è costruita dentro la favola amara del berlusconismo senza dare risposte. Bersani, Vendola, Di Pietro & Co. sono obbligati a tirare fuori dalle loro periferie energie nuove: se non altro perché di giovani in gamba in giro per l’Italia se ne trovano a decine. Il Fatto oggi ve ne racconta otto. Già affermati, come Matteo Ricci, “presidente della felicità” in Provincia di Pesaro; o come Simone Gamberini, amatissimo sindaco di Casalecchio di Reno; o come Sara Giudice, l’enfant prodige della destra di Fini, già diventata volto televisivo per la sua lotta controcorrente alla politica del bunga bunga. Poi ci sono i Don Chisciotte, piccoli e magari sconfitti, che proseguono le loro lotte per i precari, come Marco Riva a Torino, o per l’ambiente, come Alice Laghi a Udine. Non mancano nuovi eroi della lotta alla mafia, Salvatore Scalzo a Catanzaro ed Erasmo Palazzotto a Palermo. O chi non ha avuto paura di sfidare poteri fortissimi: Vincenzo Cenname, rieletto in provincia di Caserta dopo essersi opposto al “sistema-Bertolaso”. Quando la generazione dei baby boomers che oggi ha in mano le leve del potere lascerà i posti di prima fila, potremo mettere alla prova questi ragazzi e scoprire se valgono davvero. Ma per poter fare questa prova bisogna lasciargli in mano il volante della macchina esattamente come accadde alla “generazione del ’99” alla fine della Prima guerra mondiale, come accadde ai ventenni che nel 1945 ricostruirono l’Italia dopo la catastrofe del fascismo.
Quando mi chiedono dei giovani nati dopo il 1989, solitamente rispondo che si tratta di una generazione “colonizzata e oppressa”. Oppressa perché viene considerato normale che sia privata dei diritti e della speranza, del reddito e persino della garanzia previdenziale. Colonizzata perché è riuscita, su questi ragazzi, una micidiale operazione di condizionamento: gli ex contestatori che mettevano sotto processo i loro padri, quando sono diventati a loro volta padri, hanno rimosso il conflitto. E quindi i ragazzi nati dopo l’89 (in particolare i venti-trentenni) sono stati abituati all’individualismo, alla solitudine, all’ineluttabilità di un sistema, e di una organizzazione gerarchica della società in cui convivono paternalismo e autoritarismo. Questi stranissimi padri-padroni dicono ai loro figli (anche a quelli non anagrafici): “Non contestarmi, perché io sono tuo amico”. Ma questa rimozione del conflitto, il sano conflitto che in tutti i tempi e in tutte le epoche contrappone i vecchi e i giovani, ha finito per danneggiare sia i vecchi sia i giovani. Il padre-fratello maggiore è solo apparentemente complice, e in realtà nemico. E così – purtroppo – l’unico altro modello italiano di rinnovamento, è stato quello del Papi, che precetta secondo il suo capriccio. Il rinnovamento generazionale a mezzo bunga bunga, contro il babbionismo della vecchia sinistra (vedi il Pd) che magari nomina i dirigenti “giovani”, ma poi gli affianca il “tutor” (che decide tutto lui). Ecco perché per cambiare le cose, occorre fare scouting. E bisogna cancellare i due modelli del colonialismo generazionale: quello dei padri-paternalistici e quello dei papi che toccano il culo.
di Luca Telese
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