Lacrime Napulitane: ecco, va fatto un monumento a Libero, che ci segnala con lo sberleffo quel che merita l’elogio, che dedica una prima pagina alla censura di un gesto che invece va considerato nobile, che ricorda con una invettiva quel che è un vantaggio: avere sul Colle un presidente di carne e sangue, un ottuagenario che, in un panorama politico di salme, esprime più vitalità di un ventenne. “Napolitano piange”, si scandalizza il quotidiano di Belpietro e Feltri, come se commuoversi per le vittime del terrorismo al Quirinale fosse segno di debolezza o, addirittura, spia di demenza senile. “Sceneggiata Napolitano”, scrive Mattias Mainiero, con un elogio implicito del cattivismo, che invece ci fa capire come il cattivismo sia una prigione mentale, un abito stretto che impedisce di capire.
Libero è schizofrenico. Indeciso se insinuare che Napolitano pianga perché rimbambito, o – nientemeno – perché a caccia di voti: “In clima elettorale tutto fa brodo”. Aggiunge Mainiero: “I brigatisti sono finiti in carcere, in gran parte pure liberi. Alcuni morti. Storia. Da ricordare per mantenere alta la guardia. Ma storia. E Napolitano piange. Presidente – scrive Mainiero – sarà uno scherzo del’età? Oppure è un pianto elettorale?”.
Ora, non si capisce a chi tiri la volata Napolitano (solo cinque giorni fa i quotidiani di centrodestra erano in orgasmo perché cazziava il Pd!). Ma la cosa divertente, è che Libero trascura l’ipotesi più semplice. E cioè che si sia commosso per la ferocia delle storie che gli sfilavano davanti, per i lutti senza giustizia, le famiglie, per l’eroismo antiretorico dei pm cadaveri con le scarpe bucate (come il giudice Amato) crivellati dai terroristi rossi e neri, perché difendevano un’idea di civiltà e non si piegavano al ricatto. Siccome Libero scrive con la testa indietro, chiede conto a Napolitano delle mancate lacrime del 1956 (sull’invasione dell’Ungheria!), e non capisce che le sue lacrime sono belle proprio perchè arrivano al termine di una carriera di aplomb: in un paese di emozioni effimere consumate con contrazioni da centometrista, sono il tripudio del maratoneta, l’approdo di una intera biografia.
In realtà Napolitano tirò fuori la passione già nel congresso del Pci del 1991, quando gridò con orgoglio che non solo Ingrao si poteva commuovere: fu un mirabile duello di grandi vecchi, poi tradotto nell’adagio giornalistico: “Dalle mozioni alle emozioni”. In realtà Napolitano ha mostrato di non essere l’iceberg dipinto dai cattivisti quando si commosse ricordando (nel 2008) il suo lessico familiare: “Mio padre aveva scritto a mo’ di appunti sulla Grande Guerra: Si è intensamente sofferto. Ma, dopo la sofferenza, si torna migliori. La vita acquista un senso nuovo”. E ha pianto a L’Aquila, nel 2009, coi familiari delle vittime, dicendo ai reporter: “Non sono venuto a farmi fotografare, fatevi da parte…”. Sarà un caso che Berlusconi dice: “Serve un premier con più poteri e un capo dello Stato che ne abbia di meno?”. Nel paese della commozione facile, dell’emotività mediatica e dell’impunità giuridica, pesano le lacrime dei duri; i vasi che Bettino Craxi decorava a Hammamet con colature rosso sangue (L’Italia piange). Le polemiche contro Sandro Pertini, commosso per il terremoto e a Vermicino (quando Alfredino rimase in fondo a un pozzo).
In realtà, nel paradosso istituzionale che è l’Italia, i presidenti che non piangevano (come Antonio Segni) accompagnavano rumori di sciabola, e quelli che ridevano amaro (Francesco Cossiga), hanno picconato. Queste lacrime, per Libero tardive, dicono “Onore ai magistrati!”: non sono lacrime di una vita, ma di molte vite. E, forse, proprio l’imponderabile emotività di Napolitano dovrebbe renderle non sospette, ma più credibili: “E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore”(Quasimodo).
Ecco, in un paese in cui l’Antistato si incarna nel sorriso atroce di Francesco Piscicelli (quello che rideva la sera del terremoto sognando appalti) forse l’unico modo di rappresentare le istituzioni è commuoversi. In un paese in cui la migliore epigrafe al cattivismo affarista è un cartello in un negozio (L’Aquila, ore 3.32, noi non ridevamo!”, e il più bel simbolo di dignità sono le scarpe del giudice Amato che scossero persino Francesca Mambro (“Mi venne in mente mio padre”), ecco, in un paese osceno e grottesco come il nostro, Belpy, Littorio e Mainiero dovrebbero scrivere che le lacrime di Napolitano non sono in ritardo sull’Ungheria, ma figlie di un inno laico, il Povera patria di Franco Battiato. In un Paese come il nostro, ai cattivisti che si danno di gomito se Berlusconi sghignazza per barzelletta sulla mela “che sa di fica”, diciamo che siamo orgogliosi di queste lacrime lunghe trent’anni. Ci commuoviamo se il San Carlo tributa acclama ’inno di Mameli (suonato da Riccardo Muti) e Napolitano, al grido di “Viva la Costituzione!”.
In un Paese così, non ci turbano le “sofferenze” delle veline Olgettine o del piccolo Nathan Falco Briatore costretto dalla Finanza (che crimine!) a scendere dallo Yacht. E nemmeno il povero manager Thyssen condannato perché manda i suoi operai a morire. In questo Paese viene da cantare anche a noi: Presidente siamo con teee!!!/ Meno male che Giorgio c’è! (Lacrime napulitane comprese).
di Luca Telese
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