Ho divorato tutto quello che è stato scritto sul film di Nanni Moretti, e mi sono reso conto che nessuno ha parlato di una delle cose che a me è piaciuta di più: e cioè della straordinaria capacità di Habemus papam, di tenere insieme, con una leggerezza rara (e con un ritmo di narrazione incalzante), un sentimento molto tragico e una sceneggiatura molto comica. Non per un effetto collaterale, ma per un virtuosismo di scrittura degno della migliore commedia italiana. Il congegno narrativo innescato dalla mancata proclamazione, la sequenza del Camerlengo che fugge dal balcone di piazza San Pietro smarrito, poi, introducono un elemento di suspense quasi hitchcockiano che si risolve solo nell’ultima scena.
Ma è stato come toccare un nervo scoperto. Si sono scritti fiumi di inchiostro per cercare di esorcizzare l’ingresso in Vaticano di Nanni. E ho avvertito con stupore il disagio di molti colleghi che all’anteprima hanno sofferto per gli irresistibili spunti comici (“Troppe scenette allegre”, ha decretato ad esempio Paolo Mereghetti) tra il Nanni psicologo e i cardinali imprigionati nel conclave.
Qualcuno ha letto in questa partitura un eccesso di disinvoltura, altri un eccesso caricaturale. Secondo Giorgio Carbone, su Libero “Moretti è finito”. Per Claudio Siniscalchi, su Il Giornale, “ci sono tante battute e nessuna sostanza”. Vittorio Messori ha aperto il suo articolo – nientemeno – con la presa d’atto (vagamente sconsolata) che “non c’è stata nessuna conversione di Moretti”. E meno male, aggiungo: come se, per poter parlare del Papa, Nanni dovesse pagare una sorta di imposta mistica, o ripercorrere il cammino di tanti intellettuali laicisti folgorati in punto di morte.
Invece la chiave del film è tutta in questo meraviglioso contrappunto tra sacro e profano, tra il dramma dei tempi cupi che trasforma padre Melville in un novello Celestino V, in un obiettore che non vuole ascendere al soglio perché il compito è immane e il desiderio di Nanni di divertirsi contaminando gli ingredienti del verosimile e del surreale, con gli strumenti alati di una fantasia che non si autocensura di fronte alla sacralità porporata.
I cardinali buontemponi, a tratti creduli (ma sempre simpaticissimi) non sono certo una offesa alla Chiesa, ma un affresco caldissimo e persino molto rispettoso. Tutti hanno scritto che è “il meno politico dei film di Moretti”, perché non ci sono battute su D’Alema o su Alberto Sordi, perché l’alter-Nanni-ego questa volta riduce gli epigrammi oracolari e le esternazioni sapienziali che sono state un ingrediente virale del suo cinema.
Tutti hanno dato per scontato che si parli solo del Vaticano. E invece il disagio di questo umanissimo, simpaticissimo e genialmente trasgressivo Papa Piccoli, è davvero una metafora adatta ai tempi, è anche il nostro disagio. Chissà quanto rideva Nanni, mentre lui girava, e D’Alema lanciava anatemi contro un “Papa straniero” nel Pd. Ebbene, Nanni il Papa straniero l’ha fatto vincere in conclave, e poi lo ha trasformato in un novello marziano che cerca risposte e libertà per le strade di Roma, guidato dalla voce incantata di Omara Portuondo.
Papa Melville ci assomiglia. Ma ci assomigliano anche i cardinali creduli che si fermano incantati ad ammirare le ombre sulle tende degli appartamenti del pontefice. Quella finzione inscenata per coprire la fuga del novello pontefice è un inganno, ovviamente, come è un inganno questa Italia di veline propagandistiche e questa Europa di manipolazioni belliche. È invece una iniezione di libertà l’avventura meta-teatrale cechoviana di padre Melville. È un viaggio catartico per tutti, la sua terapia. Habemus Nanni, dunque. Il Nanni più autoironico, ispirato, tenero, anticonformista di questi anni. Nanni che ci ha fatto un regalo, perché Papa Melville siamo noi. Difficile immaginare un’operazione meno sacrilega: impiantare la tormentata anima della sinistra su una bianca tonaca pontificale.
di Luca Telese
Rispondi