Se per due giorni di seguito sia Libero che Il Giornale ti dedicano la prima pagina (e una intera dentro il quotidiano) qualcosa vuol dire. Se per mesi finisci nel titolone come un bersaglio fisso, un motivo ci deve pur essere. C’è qualcosa di interessante nell’epifania mediatica rovesciata e nell’assurgere di Italo Bocchino a nemico pubblico del centrodestra italiano, in un corollario di polemiche giornalistiche, denunce per stalking (dell’interessato) e nell’appendice collaterale di una disputa d’onore al coltello con (l’ex) amico di un tempo Roberto D’Agostino. Lo stereotipo a cui Bocchino viene crocifisso dalla stampa di ispirazione berlusconiana (la contesa con il sito del re del gossip ha implicazioni diverse e più complesse) è quello del “Giuda”, del “rinnegato”, del “traditore infame” (se non del corrotto arricchito con pubbliche commesse). Un politico che, in questa iconografia dilatata, diventa addirittura artefice del peccato originale, se è vero che Il Giornale lo imputa persino per essere stato l’uomo che ha “soffiato” a Dagospia (nientemeno!) la notizia delle notizie, quella della festa a Casoria in cui Silvio Berlusconi andò a visitare Noemi Letizia.
Per Il Giornale quella soffiata è come la cacciata dall’Eden, lo sfregio inemendabile al berlusconismo, che già in sé giustifica il calvario successivo. Allo stesso tempo va detto che la denuncia di Bocchino per stalking giornalistico non ha precedenti giuridici, e che se la campagna contro di lui non avesse dei contorni di accanimento quasi grottesco, potrebbe persino suggerire domande sulla liceità di una risposta giudiziaria a una campagna di stampa. Ieri Vittorio Macioce scriveva: “Non nominare il suo nome invano”, con il corredo di 36 foto dei cronisti martiri vittima della denuncia. Ma Il Giornale ha pubblicato anche la nota minuziosa dei rimborsi a cui aveva diritto da capogruppo, lo ha accusato di voler fare le scarpe a Fini, lo ha ritratto come un ras violento e arrogante, scavando nei dissidi interni al partito con metodo. Maurizio Belpietro ha sparato in prima pagina il titolo più surreale probabilmente più scioccante della sua gestione (“Bocchino amaro”), ed entrambi i giornali (a partire dal Giornale quando era diretto da Vittorio Feltri) hanno trasferito ed esteso la battaglia “anti-italica” (nel senso di Italo) all’intera famiglia. Per non essere da meno Chi pubblicò in piena estate una foto di Bocchino in t-shirt che parla sulla piazzetta di Capri con Paolo Mieli nemmeno fossero le prove di un complotto giudaico massonico (“Ecco i consiglieri segreti di Fini!”), il che doveva far presagire che o Mieli o Bocchino erano cortesemente tallonati (o “attenzionati”) da paparazzi volenterosi, il gossip sulla presunta relazione con Mara Carfagna diventa una clava contudente (da cui persino la ministra viene sollecitata a emanciparsi con intervista “riparatrice”). E siccome nel sistema di comunicazione berlusconiano tutti i vasi sono comunicanti, persino su Canale 5, nel contenitore apparentemente svagato di Kalispèra, il vicepresidente di Fli è stato irriso – nientemeno! – per una comparsata cinematografica giovanile, quando (poco più che ventenne) accettò di recitare un ruolo da cameriere ne La bruttina stagionata: un cammeo in uno dei film prodotti dalla moglie, e faceva una certa impressione assistere alla spensierata gogna signoriniana che quella particina – a vent’anni di distanza – poteva produrre. Ma siccome Bocchino non ha proprio il physique du rôle della povera vittima, bisogna anche aggiungere che l’uomo macchina di Fini conosce bene questo meccanismo e in parte lo ha anche sfruttato, se è vero che adesso approfitta della sua nuova aura mediatica per fare il salto in serie A, e a giorni si prepara a provare la scalata alla classifica con la sua autobiografia politica (“Una storia di destra”) che la Longanesi ha deciso di mandare in Libreria con una tiratura-monstre (20 mila copie, quella da cui di solito parte un ottimo best-seller italiano). Vuole diventare primo in classifica e potrebbe persino riuscirci con la sua “Storia di destra”, prefatta dall’amico (oggi separato dall’antifinismo) Pietrangelo Buttafuoco. Ma detto questo, la domanda rimane. Perché proprio lui, e perché con tanta violenza? La prima risposta è semplice: evidentemente perché sta sulle palle a Silvio Berlusconi. Il che non toglie la libertà di iniziativa dei direttori interessati, ma di sicuro spiega che c’è un mood, un comune sentire su cui riposa l’assalto.
La seconda risposta forse è più complessa. È come se il possente apparato comunicativo del Cavaliere avesse un continuo bisogno di carne fresca. Serve come il pane un nemico pubblico da additare agli elettori-tifosi, e Bocchino ha la massa critica e la presenza scenica per interpretare il ruolo. Era amico di Belpietro, per dire, ma questo non gli ha risparmiato gli strali. In fondo, il meccanismo di generazione del nemico, nell’immaginario berlusconiano, segue degli stilemi molto comunisti e molto “sovietici”. La necessità fisiologica nel nemico esterno per quadrare le proprie legioni, produce “il Kulako”, il traditore, il servo dei complottatori, esattamente come l’immaginario staliniano aveva bisogno di queste figure fino ad arrivare all’invenzione. L’ultima risposta, invece, è di tipo per così dire “tecnico”. Bocchino viene da dentro il sistema e quindi ne conosce i talloni d’Achille e i punti deboli. Mentre gli uomini del centrosinistra cedono come ricotte ai guastatori del Cavaliere, Bocchino è sempre all’attacco. Restò memorabile la sua battuta sulle povere vittimelle dell’Olgettina a Ballarò (“Ma fra queste beneficiate dalla generosità di Berlusconi non ce n’è nemmeno una che abbia sessant’anni). Non meno ficcante è stato il duello a In Onda (finito ovunque su Youtube) in cui, ospite del mio programma, Bocchino per un’ora esatta ha continuato a bersagliare Sallusti con una domanda (rimasta senza risposta): “Perché non dici quanto ti pagano per fare il killer?”. La polemistica anti-italica (nel senso di Italo), dunque, è destinata a pareggiare quella anti-finiana. Perché nel duello senza tregua, gli highlander di B. non conoscono la tregua. Come suona bene, in bocca a Sallusti, la belligerante battuta di Cristopher Lambert: “Alla fine ne resterà uno solo”.
di Luca Telese
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