Si comincia con battute folgoranti come questa: “Il ministro Sandro Bondi è un caso clamoroso di cervello fuggito dall’Italia. Infatti il cervello, come si può intuire, è all’estero da tempo: ma il corpo, purtroppo, è rimasto a far danni qui”. O da stoccate al vetriolo come questa: “Trovo seria la scelta della camorra di chiamarsi ‘criminalità organizzata’: evidentemente sentivano il bisogno di distinguersi dal ministero della cultura”. E allora vai, una sera, a vedere il nuovo “Mistero Buffo” di Paolo Rossi, per scoprire che l’omaggio (dichiarato) alla più celebre piece Dario Fo, è diventata il pretesto per una meravigliosa, dissacrante digressione nell’Italia contemporanea, lo spunto per costruire un bestiario del tempo berlusconiano, in cui un nuovo stranissimo grammelot (“Quello di Dario è padano, il mio è triestino, ma contaminato con l’inglese basic”) e la forma narrativa delle scritture sacre (e molto aprocrife), rielaborata dal re dei monologhisti satirici, producono un esilarante “Vangelo secondo Ruby”. E allora vai al teatro Vittoria di Roma (chi volesse ha tempo fino a marzo) a vedere questo strano mistero Buffo che si contamina continuamente con la realtà, cambia di sera in sera, “perché noi raccontiamo il mondo che sta lì fuori”. Così vedi questo strano spettacolo che a tratti diventa vertenza civile: “Confesso che sono in dissenso con il sindacato degli attori di teoricamente faccio parte. Se non altro perché, nell’anno in cui ci sono stati i più massacranti tagli al mondo teatro, sono riusciti a proclamare una unica giornata di protesta. Sapete quando? Di lunedì, quando le sale sono chiuse!”. Controproposta: “Per noi lo sciopero non è fermare la fabbrica. Ma recitare gratis”. Vai a vedere quel finale incazzato e fiammeggiante in cui Paolo Rossi, mentre il suo alter ego, chitarrista e partner (Emanuele Dell’Aquila) sul palco inizia a pizzicare gli accordi furibondi dei Depeche Mode (nella versione elettrica di Marylin Manson) e in cui la scena allestita dalla regista Carolina De La Calle Casanova è la più sobria che si possa immaginare. Un Ciao della Piaggio (che secondo l’inverosimile versione di Paolo è stato rubato dai teatranti per arrivare sulla scena), una grande vela, un piccolo palco sul palco: “E’ il corredo minimo dei saltibanchi. Così – scherza Rossi – siamo già pronti: quando il ministro ci metterà sul marciapiede lo prendiamo e lo montiamo in mezz’ora”. E poi un manichino di emigrato, Goran (destinato ad essere crocifisso in scena “in omaggio alla Lega”) che “Rappresenta tutti gli immigrati destinati a fuggire in questi tempi feroci”. Paolo sorride: “Pensate che anche Cristo era clandestino, e infatti quando le fermavano ai posti di blocco spiegava: ‘Sono un extracomunitario di Betlemme”. Una delle prime meravigliose affabulazioni della serata, è lo sbarco (simulato) di Rossi, del suo chitarrista (e del manichino) a Salò, con i tedeschi che vanno sul lago convinti di essere sull’Adriatico (“Lo vedi che è l’Adriatico? Infatti arrivano i boat people”). Una delle cose che non si possono descrivere, è la camminata ansiogena e nervosa del giovane Cristo (cattivissimo) che, accompagnato dagli accordi di Jesus Christ super star, si apposta dietro gli angoli per picchiare i figli dei ricchi. Poi, ogni tanto, affiora Berlusconi. “Ho iniziato a prenderlo per culo nel lontano 1982. Ancora non ho capito se ci ho visto giusto o se ho portato sfiga…”. Oppure: “Sono nano come lui. Ma, come è noto, non tutti i nani vengono per nuocere”. E ancora: “Cristo si differenziava da Berlusconi per una cosa: aveva capito che i miracoli si fanno. Ma non si promettono”. La seconda cosa che non puoi raccontare è la parlata sbilenca “(Ahhg, contaaaadinoohh”…) del prete che spiega al povero che non può coltivare la terra, perché è del padrone di tutto, l’imperatoreeehh, quello che ha protetto la nipote del gran visir di Alessandriaaah chiamaaaatah Ruuuby, ahhhg…”. E poi, quando il pubblico ha appena finito di ridere per una raffica di battute, cambia il passo con il meraviglioso monologo di Lucia Vasini, sulla deposizione: drammatico, duro, appassionante – una rasoiata – e tu te ne resti lì, in sala, con la pelle d’oca. Questo mistero Buffo in cui i prepotenti vincono ma i poveri resistono (a colpi di forcone), in cui l’ultima cena è una grande ubriacatura in cui “il Jesus” decide i posti a tavola dicendo “Mettiamoci così, proprio come nel quadro”, è il ritratto dell’Italia di oggi. Che si chiude con la preghiera amara del comico, che poi è lo stesso ex ribelle, già ex contadino, già ex povero, reincarnato per il miracolo extraevangelico di un Dio ubriaco: “Signore, fa che continuino i soprusi, le miserie e le violenze, perché finché continua così noi comici avremo sempre da lavorare”. Morale: “E’ vero come dice Tremonti che con la cultura non si mangia. Ma con la cultura impari a difendere i tuoi diritti. E se impari a difendere i diritti, poi, in qualche modo, a fine mese qualcosa mangi”. Ce ne fossero di buffoni come Paolo Rossi, nell’Italia dei nuovi poveri, dei nani e dei sultani.
di Luca Telese
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