L‘ultima di loro, Alessandra Mussolini, ha lanciato ieri il suo anatema, come un’amazzone che intona un grido di battaglia: “Se la Carfagna non mi chiede pubblicamente scusa io non voto la fiducia, il 14!”. Una bella rogna, mentre si combatte voto per voto. Se non altro perché, quando Alessandra si cala l’elmetto sulla fronte e scende in combattimento, a Montecitorio, ci sono deputati che, per esperienze parlamentari pregresse, con un riflesso protettivo, portano le mani verso le parti basse: “Avevo posto alla Carfagna una questione politica -ha dichiarato ieri la Mussolini, furente – ho avuto in risposta un insulto. Non voto la fiducia ad un governo dove c'è un ministro per le Pari Opportunità che insulta le donne”.
Guardate questa grande e gioiosa foto tre anni e un secolo fa. C’è in questo crepuscolo sempre più epico e sfavillante, c’è – nella spettacolare epopea discendente del governo Berlusconi – anche un coro greco: un coro tragico di donne. Di Donne che odiano donne. Di Donne che si scambiano fendenti, insulti e colpi bassi.
Se è vero che il destino ama riservare le sue nemesi per contrappasso, è indubbio che le donne Del Cavaliere furono il combustibile della resurrezione azzurra dopo la crisi di mezza età del berlusconismo, il fiore all’occhiello, il guanto di sfida verso il centrosinistra, quasi sempre affetto da maschilismo e senescenza. Nel sistema berlusconiano le quote rosa non erano applicate con l’entusiasmo della cura dentistica (come nel centrosinistra), ma con la sincera, fideistica, certezza di un dogma. Il berlusconismo era una seduzione di massa che aveva bisogno di curve e di sorrisi affascinanti. Le cinque ministre del terzo governo Berlusconi erano le più secchione, le più utilizzate, le più esposte nella vetrina del partito dell’amore. E anche le più efficaci.
C’erano donne replicate anche nelle prime file del primo congresso del Pdl, sia pure nella semplificazione estetica delle Hostess, precettate per assicurare la predominanza eugenetica dei sorrisi, degli attacchi inguinali e delle scollature. Ma dietro tutte queste criticatissime scelte, Berlusconi era riuscito anche a creare una squadra affiatata e un poderoso effetto-marketing. Daniela Santanchè raccattava il milione di voti della destra radicale, Giorgia Meloni diventava la ministra della gioventù con il megafono in mano, la tuta e la mise da militante di lotta e di governo. Mara Carfagna occupava lo spazio del riformismo paritario, strapazzando un po’ vigliaccamente i gay (privati del patrocinio ministeriale forse anche in contrasto con le sue personali convinzioni), ma recuperando consensi con la legge sullo stalking, applaudita da tutti. Stefania Prestigiacomo inscenava bracci di ferro epici con Tremonti sulle deleghe ambientali (anche se poi in Europa difendeva lo sforamento delle emissioni), Mariastella Gelmini metteva in mostra una grinta da incassatrice incredibile per resistere a migliaia di insulti dal quarto di milione di italiani a cui dava del comunista (fosse stato un uomo l’avrebbero sicuramente linciata). Un uomo non avrebbe potuto fare macelleria di aule, professori e bambini. Una donna poteva farlo, e magari intenerirci con il pancione. Tutte queste donne si rivelavano più competitive, più efficienti, più preparate dei loro colleghi uomini. Più brave nel tenere la scena e cambiare abito a seconda delle occorrenze. Più misteriose e carismatiche.
Adesso che il cemento sessuato del berlusconismo viene intaccato nelle sue fondamenta, la Mussolini si abbatte come un caterpillar sulle ministre. Iniziò prima dell’estate affondando (quasi da sola) con la guerriglia d’Aula, la legge sulle comunità giovanili a cui la Meloni aveva lavorato per due anni. Ha proseguito ieri distillando la goccia che ha fatto traboccare il vaso della pazienza della Carfagna. Mara aveva incassato – apparentemente senza colpo ferire – il pizzino avvelenato del collega Cirielli infilato nelle caselle dei colleghi in Parlamento. Perché la ministra non poteva accettare che la Mussolini la sbeffeggiasse in Trasatlantico, fotografandola come nei dispetti goliardici celebrati a colpi di videofonino nelle aule di liceo: “Ho fatto la foto alla Carfagna e Bocchino che parlano! Ho fatto la foto alla Carfagna e Bocchino che parlano!”. Ci sarebbe voluta una maestra, forse, purtroppo Berlusconi ha taciuto.
Solo pochi giorni prima, Chi, un settimanale che si è distinto come tempio della dinastia berlusconiana, luogo privilegiato della real casa, e grande cesellatore di portfogli ministeriali e femminei, pubblicava la notizia di uno scambio di battute vetriolate a Milano, di quelle che si sentono in bocca alle comari, solo nel bianco e nero polveroso e sfarinato del cinema neorealista: “Sei una cagna!”. Chi ripeteva la battuta, ma non rivelava la paternità. Il Riformista si incaricava di rifinire il copione: “A dire la frase è stata Mariastella Gelmini. A incassarla Michela Vittoria Brambilla. Note stonate che disturbavano la grande coreografia rosa dei cieli azzurri, insieme con il gioco surreale dei boatos mai sopiti su intercettazioni mai viste. Oppure con le cronache dei siparietti in consiglio dei ministri dove la Prestigiacomo e Tremonti litigavano sulle quote rosa. O sui fondi per l’ambiente. Nel primo caso Stefania pianse, come una figurina dell’italia risorgimentale. Nel secondo tirò fuori gli artigli: “'Giulio, non dire cretinate!”, sbottò lei. “O ricevo le scuse o mi dimetto”, replicò algido lui. Adesso che l’impero è al tramonto, adesso che le donne diventano la prigione in cui l’immagine del premier si tramuta in maschera ossessiva, le ministre si prendono la loro libertà. Non più voci intonate del coro azzurro che fu, ma tuoni e lampi della tragedia greca, Erinni spietate e conflittuali. Il paradosso è che ancora una volta le donne sono profetiche nella premonizione. Anche il complesso di Cassandra è femmina. E le ministre premoniscono prima di tutti altri che il tempo sta cambiando.
Luca Telese
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