Fra le tante cose che vi racconteranno di “The Social Network”, forse questa non c’è. Preparatevi ad essere informati che volerà in cima alle classifiche, che sbancherà ai botteghini, che diventerà oggetto di discussione sociologica, che sarà di certo una pellicola levatrice di un vivaio di giovani attori e di futuri talenti. Ma è molto più difficile che vi dicano quello che sorprendentemente è: non un docudrammetto su internet, ma un film sulla nuova “lotta di classe” tra ricchi e poveri. Sia chiaro: questo ingrediente era già ben presente, in filigrana, nell’avvincente libro del guru del giornalismo americano Ben Mezrich (pubblicato in Italia da Sperling & Kupfer) da cui è tratto: ma, se possibile, è stato ancora di più esaltato dall’avvincente lungometraggio di Brian Singer presentato ieri al festival di Roma con tutti i crismi dell’evento e trasposto sullo schermo con quella incredibile capacità che hanno gli americani di trasformare il passato prossimo in epopea, l’impresa personale in racconto quasi leggendario, di trasfigurare la realtà per costruire continue nuove parabole sul sogno americano. Eppure, a metà del film, quando si è completamente calati nell’intreccio della storia, quando la cinepresa entra dentro il club dei fighetti di Harward fa capolino uno striscione d’epoca: l’anno che c’è scritto sopra è “2002”. Nemmeno dieci anni fa.
Ma in questo decennio scarso, in America, è avvenuto un terremoto, il passaggio dall’era Bush a quella Obama. E forse, senza l’America di Obama questo film non sarebbe come è. Sia chiaro: non c’è nemmeno una battuta “sulla” politica, in tutto il copione, nemmeno un riferimento alla cronaca: ma per il resto “The social network” è un film incredibilmente politico. Il Mark Zuckemberg che vediamo sullo schermo straordinariamente interpretato da Jesse Eisenberg (nella realtà, oggi, Zuckemberg è appena trentenne) è tecnicamente un “Nerd”. Non partecipa alle riunioni del club del college, non ambisce ad entrarci, non ha parenti celebri nel suo araldo familiare, non è bello, non è cool, è stato lasciato dalla ragazza, non ha nemmeno 2000 dollari per aprire il dominio (che oggi vale 25 miliardi di dollari). Al contrario i suoi avversari, quelli che gli faranno causa cercando di rubargli la sua invenzione, i fratelli (gemelli) Winklevoss, sono l’esatto contrario: ricchi, famosi, belli, aspiranti campioni olimpionici, prepotenti quanto basta, ammanicati quanto basta, difesi dall’avocato di famiglia. Loro sono Wasp, Mark è ebreo.
Certo, se è vera (ed è vera) la frase di Balzac secondo cui “Dietro ogni fortuna si nasconde un grande crimine”, anche Mark non è alieno da ombre. Sul suo viso apparentemente angelico, oltre all’entusiasmo del nuovo pioniere, e all’ottimismo innato del genio creativo si alternano rabbia, moti di stizza, lampi di superbia, un certo modo candido che ha, quando suo malgrado decide di fregare gli amici. Ma tutto il “Social network” (che poi ovviamente è Facebook) e la sua invenzione, nel film di Singer (e nel libro di Mezrich) diventano figli di un’idea di riscatto: il social network viene teorizzato dal suo creatore come uno strumento democratico che rompe l’elitismo dei college americani, come una filosofia di vita anti-aristrocratica e web-populista. Anzi. Anche Sena Parker (il creatore di Napster), che entra come un deus ex machina nella storia, sostenendo Mark (persino contro il suo primo socio Eduardo) corrisponde a questo profilo ideologico di net-progressista: libero, anarchico, ribelle, nemico del mercato, e sostenitore del software libero. Andatevi a vedere “The social network”, sapendo che vi troverete avvinti da un montaggio serrato, avvincente, mozzafiato. Sapendo che a Il Foglio non è piaciuto (un punto a favore). E, soprattutto, che la lotta di classe da oggi si trasferisce sul web. Dal social network al net-socialism.
Luca Telese
Rispondi