Di solito il conformistico giornalistico fa si che si ricordino i genitori dei vip per gratificare i vip. Nel caso di Agata Apicella Moretti, madre di Nanni, è vero il contrario. Non si può prescindere da lei per spiegare metà della cinematografia del figlio. E non si può non ricordarla – nel giorno tristissimo della sua scomparsa – senza ricostruire quell’esplosiva miscela di carisma, simpatia e cultura che hanno fatto di lei un personaggio memorabile per generazioni di studenti e amici. Molti sanno che l’alter ego di Nanni in tanti suoi film si chiama Michele Apicella in un omaggio onomastico a lei. Pochi sanno che Agata è stata per una vita una “professoressa democratica”, doc, al liceo Visconti di Roma, una di quelle di cui si è perso lo stampo, appassionata cultrice di lettere classiche e passioni umane.
Agata era la quintessenza della simpatia: mai snob, sempre a scuola, la incontravi a fare la spesa con i mazzi dei compiti in classe in borsa, la penna in una mano, la sigaretta nell’altra. Non potevi dimenticartela in gita scolastica, a bacchettare chi cercava facili evasioni, ma poi, di sera, a discutere e scherzare nelle camere degli studenti, con la capacità rara di essere anticonformista e rigorosa insieme. Insegnava Greco e latino nella sezione C: uno dei figli e il marito erano due luminari di italianistica, Nanni vinceva a Cannes, e lei ti ripeteva: “Insegno da trent’anni per un solo motivo: l’amore per i ragazzi!”. Ho avuto la fortuna di sederle vicino in consiglio di istituto per quasi tre anni. Un giorno, nel pieno di una litigata epocale sugli esperti da approvare una assemblea di istituto si addormentò. E quando la preside esclamò: “Ma professoressa Moretti!”, lei fece esplodere una risata catartica: “Guardi professoressa Turri se mi avete fatto crollare, vuol dire che queste chiacchiere non hanno più senso”. I nomi contesi vennero approvati all’unanimità. Faceva credere di prediligere Franco, e i suoi saggi, ma stravedeva per Nanni, e i suoi film, in cui interpretava talvolta il cammeo di se stessa. Se devo tenermi stretta una immagine, fra tante, è quella della battaglia simbolica (vinta) per riaprire il museo dei gesuiti, burocraticamente sigillato da un secolo e colmo di tesori. Agata ci si impegnò con la sua testa dura, insieme a un giovane professore di matematica, Alessandro Orlandi. Il giorno in cui saltarono i lucchetti, gli studenti che avevano fatto irruzione festosi, nel laboratorio pieno di reperti, tra le lenti molate da Baruch Spinosa, e verbali di Galilei, e gli obelischi di Attanaius Kircher furono inseguiti da un suo ululato: “Se si rompe solo un vetrino applico pene corporali!!!”. Fu una grande festa anche quella, non si ruppe nulla, e lei tradusse in greco le iscrizioni improvvisando la lezione della vita: “Questa è una scena da sessantotto”, sospirava contenta, era il 1989. Ora che Agata non c’è più, viene voglia di salire su un banco e ripetere: “O capitano, mio capitano!”. Ma sapendo che lei scuoterebbe il capo: “Troppa retorica”. E si accenderebbe una sigaretta.
Luca Telese
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