E poi Giuseppe Ciarrapico parlò, nell’Aula del Senato, e nulla fu più uguale a prima, come se avesse tirato una bomba a frammentazione: “Speriamo che il presidente della Camera abbia già ordinato le kippà, con le quali lui e i suoi si presenteranno… Chi ha tradito una volta tradisce sempre”.
E poi Giuseppe Ciarrapico parlò, con il sospiro asmatico e un po’ drammatico della vecchiaia che ti taglia il fiato, con il tono dell’invettiva apocalittica di chi ha maneggiato la grande storia che si impasta con le cadenze del romanesco, con la mano appoggiata al banco di palazzo Madama, come per sostenere un peso terribile. Come se tutto il suo intervento fosse un viaggio all’indietro nel tempo, “Ella” per indicare Silvio Berlusconi, con un pronome che fa subito Ventennio, solo a pronunciarlo.
I deputati di Futuro e libertà – spiega il senatore del Pdl – “sono stati mandati”. Da chi? Non c’è bisogno di dirlo, una vecchia volpe come il Ciarra sa maneggiare la lingua dei sottintesi senza sprecare parole. Annuiscono intorno a lui i suoi compagni di banco, nessuno tra i colleghi del Pdl pensa di doverlo riprendere. Torna così, nell’aula del Senato, sia pur condito con accento bonario, il lessico feroce dell’antisemitismo. Torna in Parlamento con il coraggio avventato di chi non allude ma dice esplicitamente, mettendo nei guai il centrodestra. Torna evocato insieme al simbolo dei simboli. La kippà: ovvero il sionismo, ovvero l’abiura dei nemici della patria, il complotto pluto-giudaico-massonico.
“Presidente, ella nobbilmente ha ignorato che c’erano trentacinque rinnegati alla Cammera dei deputati…”. La cosa più stupida da fare – quando parole di questa portata vengono pronunciate in un’Aula parlamentare – è quella di “mostrificare” l’intervento di Ciapparico, la sua persona. Oppure di demonizzarlo, o macchiettizzarlo, o minimizzarlo, che poi è sempre la stessa cosa. Ciarrapico dice, senza contestazioni e senza ritrattazioni, semplicemente correggendo dopo una flebile nota dei suoi colleghi, quello che un pezzo della classe dirigente del centrodestra pensa da anni. “E' intollerabile – dice in splendida solitudine Fiamma Nirenstein, senatrice del Pdl – che nel nostro Parlamento si possa presentare un atteggiamento di questo genere. Tutti condanniamo le affermazioni di Ciarrapico. La guerra contro l'antisemitismo è una questione di civilta'”. Lo dice la Nirenstein, ma basta il commento di SIlvio Berlusconi perchè tutto sia vanificato: “Una parola sfuggita”, ci fa sapere il premier. E aggiunge: “Io mi sento israeliano”. Anzi: ha degli amici israeliani, Berlusconi, a cui ha offerto la cena, e ce lo fa sapere, come nel cliché classico dell’”amico ebreo”, che sempre si evoca per mascherare l’antisemitismo.
Ma in Aula il premier ascoltava attento, e non gli sono venuto in mente i suoi commensali, mentre Ciarrapico lo guardava durante il suo intervento: “Ella pensava che fosse casuale quel rinnegamento, no! Era necessario. Gli avevano impartito un ordine: non farci raggiungere i 306 voti fatidici”. E al fianco, il suo vicino di banco – Giovanbattista Caligiuri che annuissce scambiandosi occhiate soddisfatte con Raffaele Fantetti: “Sì-sì” (che poi Fantetti è quello ha preso il posto di Nicola Di Girolamo, il senatore della ‘ndrangheta).
Ciarrapico diceva cose condivise da molti, esprimeva un sentimento “fascistissimo” che in un pezzo di Pdl ha cittadinanza: “Non erano rinnegati causali – spiegava parlando dei finiani – Erano rinnegati mandati, erano rinnegati che avevano un compito da svolgere…”. Ovvero: far cadere il governo Berlusconi.
Demonizzare Ciarrapico è tanto facile quanto stupido. Significa appiattirlo sulla sua maschera senza capire la complessità della sua figura, e magari evocare come una scaramanzia un facile florilegio: “Fini è un islamico sionista!”. Il principe dell’editoria ciociara spiegò il suo legame con il ventennio ai tempi della sua candidatura: “Sono fascista. Ma in senso culturale, non politico. E’ una questione di memoria, di cuore, di storia personale”. E d’altra parte il Ciarra era questo: i libroni con l’opera Omnia del Duce, la casa editrice, la direzione editoriale affidata al giovanissimo Marcello Veneziani e la consulenza a Guido Giannettini (quello di piazza Fontana). Ma Ciarra è anche l’acqua di Fiuggi, gli affari, il legame con l’andreottismo, e soprattutto la mediazione nella guerra tra Mondadori e La Repubblica: “Venne Passera e aveva un camion di documenti, i gli dissi che mi ero portato dietro solo un quaderno a quadretti, e che mi proponevo di adoperare una sola pagina”. Caricaturizzare Ciarrapico in nome dell’”emergenza democratica” significa rimuovere pagine più difficili da spiegare, come la partecipazione alla convention dei Democratici del 2007: “Sono qui per l’amicizia e la stima che ho per Goffredo Bettini”. Allora nessuno evocò il ventennio.
Minimizzarlo, d’altra parte, significa ripercorrere le ridicole spiegazioni che lo stesso Berlusconi diede al momento della polemica sulle liste: “Noi dobbiamo fare una campagna elettorale e la dobbiamo vincere. L’editore Ciarrapico – si giustificava – ha giornali importanti, a noi non ostili, ed è assolutamente importante che questi giornali continuino as esserlo, visto che tutti i grandi giornali – spiegava il premier – sono dall’altra parte”. Fantastico. Solo l’incredibile fantasia da cacciaballe di Berlusconi poteva degradare il Ciarra al ruolo di “ascaro” di complemento, arruolato per orientare Ciociaria oggi in campagna elettorale.
In realtà, dietro quella somiglianza quasi metamorfica con Aldo Fabrizi, dietro quella bonarietà nostalgica colorata di venature crepuscolari, Ciarrapico non parla di Kippà in Aula per caso, ma per necessità. E non è una sorta posteggiatore abusivo di reperti mussoliniani capitato per caso nell’agorà del berlusconismo, ma un tassello che gira come deve per necessità nella comunicazione simbolica evocata e voluta dal premier. Più Berlusconi si allontana da Fini – infatti – più nel Pdl prende corpo l’anima fascistissima. Più Fini si avvicina alla fondazione del partito, più Berlusconi schiera la sua argenteria nera. E’ un lavoro di lunga lena, quello dell’altro Cavaliere (il Cavaliere nero): prova a ricostruire un partito Bonsai all’ombra della Destra, parla di “villeggiatura” per i confinati di Mussolini, si presenta in camicia nera alla festa di Atreju, sciorina barzellette simpaticamente hitleriane ai giovani del Pdl. Berlusconi avverte che un pezzo della diaspora fascista per bene guarda con simpatia a Fini per antiberlusconismo, e prova a recuperarla innescando sul suo Caraceni la protesi dell’ideologia. Non fate al Cavaliere il regalo di consideralo fascista. Ditegli piuttosto che il suo fascismo di cartapesta è posticcio.
Luca Telese
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