Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Massimo e Walter: come detestarsi da quasi vent’anni

Ancora una volta, come due duellanti che non riescono a mollare la presa, e che finiranno di combattersi in qualche ospizio, incrociando i bastoni mentre si tengono la schiena dolorante con l’altra mano. Ancora una volta una sfida a distanza che non riesce a smaltire le scie velenose di un’inimicizia antichissima, ma nemmeno a superare le colonne d’Ercole dell’ipocrisia formale. Ancora una volta, l’ennesima, Walter Veltroni e Massimo D’Alema si lanciano stilettate a distanza, seguendo un rituale arcaico e obsoleto, quello della tradizione di cui non riescono a liberarsi. Ormai sessantenni democratici e post-ideologici, a chiacchiere, ma nei fatti irrimediabilmente moscoviti.
Il primo ad aprire le danze, questa volta è stato Walter Veltroni. Nella sua sterminata lettera al Corriere della Sera, infatti, l’ex sindaco di Roma infila cinque righe nemmeno troppo allusive: “Sono stato tra i pochi – dice – che si sono fatti da parte davvero (caricandomi responsabilità certo non solo mie). Non ho chiesto alcun incarico, non ho fatto polemiche, non ho alimentato veleni. Ho semmai taciuto e ingoiato fiele – rivela – anche di fronte a varie vigliaccherie”. Quali sono le varie vigliaccherie? Fedele al costume vagamente ipocrita a cui sempre i dirigenti che vengono dal Pci-Pds-Ds si attengono, Veltroni non dice nulla di più. Ma sono tali, sottintende, da fargli ingoiare fiele. La risposta di D’Alema non si fa attendere, e segue lo stesso cerimoniale, infilata in una chiacchierata con Massimo Giannini. Dove l’ex premier infila, con la solita chirurgica precisione, la sua stoccata: “La lettera agli italiani di Veltroni, alla fine, ha avuto come unico effetto quello di dare una mano a Berlusconi”.
Parole spietatissime, anche in questo caso, non esplicitate, ma che anche in questo caso sono intellegibili da chiunque conosca il retroscena. D’Alema vuole dire che la tesi del suo avversario, accredita quella del premier secondo cui non è possibile fare nessun governo senza di lui, perché di fatto è stato eletto direttamente.
Ma dietro questa disputa tecnopolitica (Walter che non perde occasione di dichiararsi killerato, Massimo che lo accusa sempre di essere sostanzialmente velleitario e impolitico) c’è l’ombra della chiusura di un ciclo. Veltroni e D’Alema entrarono in campo, nell’agone del Partito comunista a metà degli anni Ottanta. Entrambi pupilli di Enrico Berlinguer, entrambi amati dalla base. Marciarono uniti fino alla Svolta della Bolognina, ai tempi della guerra del golfo furono persino sorpresi in scatti memorabili, all’Angelus di Giovanni Paolo II, con i rispettivi figli sulle spalle.
È entrato quasi nella leggenda lo scambio di battute che i due incrociarono il giorno dopo la Bolognina. “Ti vedo sciupato”, aveva esordito Veltroni. E D’Alema: ”Non me me lo dire: ho passato tutta la notte a litigare con Linda, che non è d’accordo”. Poi D’Alema aveva guardato meglio il suo interlocutore: “Però… Anche tu mi pari stravolto”. E Veltroni: “Ho passato anche io tutta notte a cercare di convincere Flavia…”. Al che D’Alema aveva chiuso con una freddura geniale delle sue: “Ma se non riusciamo nemmeno a convincere le nostre mogli, come faremo a convincere il resto del partito?”.
C’era del vero, e anche di più. Da quel momento il guanto di sfida era lanciato nello stesso anno, al congresso di Rimini, la leadership di Occhetto, che pure sopravvisse fino al 1994 era di fatto azzerata dal mancato quorum. I dalemiani davano l’assalto alla segreteria. I Veltroniani la difendevano. Occhetto lanciò Walter contro Massimo. Veltroni vinse la consultazione della base, D’Alema ottenne la fiduca del partito e divenne segretario.
Da quel giorno il duello fra i due divenne una sfida senza tregua, velata solo da una cortina di buone maniere. Veltroni kennedyano, D’Alema socialdemocratico. Veltroni con Prodi, iper-ulivista, D’Alema anti-prodiano insieme a Cossiga, e teoreticamente nel discorso di Gargonza, che annunciò il cambio di guardia alla presidenza del consiglio. “In una conversazione con Rinaldi, poi raccontata da Giampaolo Pansa, D’Alema cesellò una battuta sue due ulivisti che entrò negli annali: “Due flaccidi imbroglioni”. Walter si vendicò con una stoccata contro la leadership di D’Alema che stroncava la sua Cosa due: “Il Pds, o come si chiama adesso…”.
I due si combattevano e si ricomponevano, sempre un minuto prima. Un codice di partito, dicevano i benevoli, un ritardo rispetto a tutti i partiti socialisti europei, che prevedevano la dialettica alla luce del sole. Si arrivò al paradosso: detronizzato Prodi, Veltroni solidarizzava con il professore, ma poi accettò che D’Alema lo incoronasse segretario alla Fiera di Roma, sotto l’auspicio simbolicamente pregnante di uno scappellotto (la contesa, nel 2006, verteva persino sulla Roma, con D’Alema che diceva: “Fossi della Juve la sciarpetta della Roma non me la sarei messa”. Veltroni, ovviamente, era della Juve).
Con non minore incoerenza, in tempi recenti, nel 2008, D’Alema disse (ancora una volta a Massimo Giannini): “Veltroni leader? Non finché io sono in vita”. Pochi giorni dopo diede il nulla osta perché fosse proprio lui il candidato ufficiale della coalizione. Questa volta, la coltellata a Prodi e al suo governo glie diedero in due.
La diversità era addirittura antropologica: Veltroni precettava cattolici ex boy scout, D’Alema arruolava post socialisti e lothar; Veltroni montava l’ombrellone nazionalpopolare a Sabaudia, il lider maximo andava in barca come un condottiero (memorabile il divertissement di Giuliano Ferrara che finse di invidiargli pubblicamente “l’Albero in fibra trilamellare del suo Baltic). Malgrado tutto questo, l’inimicizia e l’odio sono rimasti sempre celati: le guerre veltrodalemiane, che ho paragonato alle guerre puniche, sono l’unica chiave che spiega il fratricidio di una guerra che ha devastato i gruppi dirigenti della sinistra in questi anni. Ma fedeli a una disciplina brezneviana, i due, non hanno mai ritenuto di dover girare le carte, dare pubblicità e trasparenza alla loro contesa. C’era molta più trasparenza nel vecchio Pci, dove lo scontro fra Enrico Berlinguer e Giorgio Napolitano sulla questione morale arrivò platealmente sulla prima pagina de l’Unità (il futuro presidente della Repubblica spiegò perché non gli piaceva l’intervista del segretario del Pci a Eugenio Scalfari) e persino Armando Cossutta rese trasparente il suo dissenso filosovietico ai tempi dello “Strappo” con Enrico Berlinguer rompeva il legame del Pci con l’unione sovietica.
Il giorno del voto di fiducia su Berlusconi alla Camera, un mese fa, D’Alema mi ha sfottuto con il suo meraviglioso sguardo spavaldo: “Leggo sempre i suoi pezzi, perché sono uno strumento essenziale per capire la politica. Raccontano sempre l’esatto contrario di quello che è accaduto”. Come sarebbe bello, se uno dei due duellanti, prima di finire all’ospizio, avesse il coraggio di rompere i tic del pop-breznevismo che gli impediscono di raccontare la loro inimicizia politica. Al contrario di quello che pensano, loro, non è un fatto privato.

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