Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Rifondazione e Pdci, funzionari cassintegrati

Da partiti che ambivano a rappresentare i cassintegrati, a partiti che finisco per essere costituiti “di” cassintegrati. Non c’è, ovviamente, solo la differenza di una articolo, fra queste due condizioni, ma la storia di un passaggio di epoca, la radiografia di un drammatico terremoto politico. Stiamo parlando di Pdci e Rifondazione (ma anche dei Verdi), ovvero dei partiti che dopo le ultime elezioni sono diventati due partiti zombie, partiti che si ritrovano costretti a demolire il loro apparato, a dimettere i (pochi) gioielli di famiglia rimasti, a chiudere i giornali, ad alienare le sedi, e – soprattutto – a licenziare e prepensionare tutti loro dipendenti, proprio come nei processi di de-industrializzazione che in questi anni hanno tenacemente combattuto. Colpa degli sbarramenti elettorali, prima di tutto: che colpiscono non solo la rappresentanza, ma – solo in Italia – anche il diritto ad ottenere rimborsi. E anche colpa, come vedremo fra breve, della strategia di Silvio Berlusconi (ma pure del Pd), che ha mirato a fare terra bruciata di tutte le organizzazioni politiche che avevano popolato la seconda repubblica (a sinistra come a destra). Un fenomeno, quindi, che non può indurre al sorriso, o a facili battute, ma che deve essere anche letto – qualunque cosa si pensi di questi partiti – come una ulteriore restrizione degli spazi democratici.
NON PIU’ VIRTUOSI. Il nostro viaggio non può che partire dal Pdci di Oliviero Diliberto, che fino alla catastrofe elettorale della lista arcobaleno del 2008 era additato come modello di gestione economica persino da un analista non certo tenero come Gianmaria De Francesco, cronista economico de Il Giornale: apparato ridotto, conti in regola, rapporto virtuoso tra eletti, voti e militanti, che garantiva solidi attivi di bilancio. Ebbene, la notizia che in queste ore per motivi comprensibili si tende a non diffondere (anzi, si prova a mantenere segreta) è che il partito è ormai alla bancarotta. E’ finito il carburante. Sul conto corrente ci sono solo 160mila euro, quelli che bastano a malapena a gestire l’amministrazione ordinaria. Dei 21 dipendenti 17 sono stati posti in cassa integrazione. Ne rimangono solo quattro, di cui uno – per motivi legali è l’amministratore, l’altro è un centralinista, l’altro è il segretario del segretario, e l’ultimo un organizzatore, ovvero il presidio minimo per cui il cuore dell’organizzazione non cessi di battere all’istante. Ancora più drammatica la situazione di Rinascita, il settimanale che ai tempi di Armando Cossutta fu oggetto di una contesa per il valore della testata, prestigiosa e direttamente riconducibile alla memoria di Palmiro Togliatti. Ecco, adesso il settimanale del Pdci è tecnicamente fallito, ha cessato le pubblicazioni, e tutti i giornalisti sono stati anche loro cassintegrati. Rinascita, che non aveva mai perso il suo ridotto ma solido presidio di lettori costava da solo 900mila euro l’anno, un lusso troppo grosso per un partito che deve tagliare gli stipendi a tutti. Già la storia di questo tracollo economico spiega come ci sia lo zampino del governo. Il settimanale, infatti, era uno dei pochi organi di partito, tra quelli che hanno diritto al sovvenzionamento pubblico, che non copriva in modo surrettizio altri scopi o altri fini. Ma la norma con cui Giulio Tremonti ha tolto il cosiddetto “diritto soggettivo” al finanziamento, ha di fatto reso discrezionale l’accesso ai fondi dell’editoria erogati dal dipartimento informazione di Palazzo Chigi. Risultato: mentre prima le banche anticipavano le cifre a cui il giornale avrebbe avuto in ogni caso diritto in base alla sua tiratura, adesso – non essendoci più nessuna certezza, visto che si combatte ad ogni finanziaria sulla copertura delle quote – non fanno più nessun credito. Infine il doloroso capitolo del bilancio del partito. Ancora nel 2008 aveva quattro gettiti importanti: il tesseramento, il finanziamento pubblico, i rimborsi elettorali, e le rimesse degli eletti locali e nazionali, che devolvevano il 50 per cento del proprio stipendio netto al partito. Nelle ultime politiche e alle europee, il Pdci non ha superato il quorum del 4%. E in questo caso, per via di un liberticida emendamento alla legge voluto in parlamento dai veltroniani (Berlusconi era incerto) al contrario dagli altri paesi europei, dove esiste una soglia più bassa per accedere al rimborso elettorale, né Rifondazione, né i Verdi, né il Pdci hanno ottenuto un solo centesimo. Un piccolo assurdo democratico: infatti, la quota dei voti che questi partiti ottengono, contribuisce a finanziare i loro avversari politici di centrodestra, o loro concorrenti di sinistra rappresentati. Ma nel caso del Pci le europee sono state come un tavolo da poker. Oliviero Di liberto ha deciso di puntare le sue residue risorse (quasi tre milioni di euro ottenuti anche con cartolarizzazioni) per promuovere i propri candidati nell’alleanza con Rifondazione. Risultato paradossale: tutti e quattro i candidati del partito erano arrivati primi nella battaglia delle preferenze, centrando l’obiettivo. Ma, ancora una volta, il risultato elettorale, inferiore di 0.6 decimi di punto al quorum, ha sottratto all’alleanza elettorale fra Pdci e Rifondazione quasi sei milioni di euro di finanziamento.
NAPOLI ADDIO. A via del Policlinico la situazione è altrettanto drammatica. “Io, che ho passato una vita a difendere i lavoratori dai licenziamenti – ammette con sofferenza Paolo Ferrero, segretario del partito – mi sono trovato a dover sottoscrivere la drammatica necessità di quaranta licenziamenti”. A cui, per giunta, si aggiungono, anche in questo caso, altri 40 dipendenti messi in cassa integrazione. E a cui si aggiunge la situazione precarissima di Liberazione, che ha già tagliato la filiazione, e ha dovuto mettere in solidarietà tutti i suoi dipendenti. Le vendite sono passate dalle 16mila copie dell’era Curzi alle 4.800 attuali. Ad aprile è prevista una verifica dei conti a cui anche il giornale di Rifondazione potrebbe non sopravvivere. Le ultime elezioni vedevano partire il cartello della federaizione da 48 consiglieri regionali, che dal punto di vista finanziario portavano 5mila euro a testa ogni mese. In queste elezioni i due partit sono passati a 18. 14 di Rifondazione, solo 4 del Pdci. Ma il quorum è stato mancato in una regione popolosa come la Lombardia, che portava uno dei rimborsi elettorali più cospicui. A via del Policlinico resta (per ora) un apparato di quaranta funzionari. Come pagarli? Per ora nell’unico modo possibile: mettendo in vendita un pezzo forte del patrimonio, la sede di Napoli comprata con grandi sacrifici. Ma per resistere fino alle prossime politiche, nella speranza di passare il quorum, ci vorrà altro. Unica storia controtendenza? Quella di Sinistra e libertà, che essendo nata in cattività – una scissione che l’ha costretta a ripartire da zero, senza soldi – ha ottenuto quasi lo stesso numero di eletti della federazione. Il caso virtuoso? Proprio in Puglia, dove Vendola ha trainato la lista al 9%, producendo un rimborso adeguato. Retroscena incredibile: Vendola ha speso solo 400mila euro (contro sei milioni circa del suo avversario, Rocco Palese) perché il Pd, per via delle note ruggini, aveva trattenuto i 300mila euro raccolti con le primarie. Vendola otterrà di rimborso molto di più. Li userà per finanziare le primarie nazionali in vista del 2012?
di Luca Telese


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